SICILIA – poesia e aree d’intervento – l’area messinese (di Giuseppe Zagarrio)

Falce -Messina

Pubblico un estratto da un saggio-inchiesta di Giuseppe Zagarrio, a suo tempo apparso sulla rivista SALVO IMPREVISTI – N.1 Gennaio-aprile 1975 (EDL)
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L’area messinese

(…)l’area messinese, dove più tipico appare l’interesse per le strutture formali piene, e dunque si afferma una spiccata disponibilità ad accogliere le spinte d’avanguardie (vuoi nazionali che europee e cosmopolite). Non a caso si tratta dell’area dove è maturata l’opera di Lucio Piccolo e con essa la spinta di quel barocchismo (estro, luminescenza, vagabondaggio nel labirinto delle immagini, continuum di espressività, umorosa disposizione all’autoanalisi e alle reazioni interiori) a cui si possono richiamare le varie proposte della più recente poesia messinese: l’amaro cosmopolitano di Bartolo Cattafi, il denso emblematismo figurale di Nino Crimi, l’ambiguo (anti)mitologismo di Melo Freni; e sarebbe giusto aggiungere, per il settore degli sradicati, il visualismo provocatorio di Emilio Isgrò, il funambolismo cittadino di Basilio Reale o quello memoriale di Giuseppe Longo. Qui la condizione è quella di una conoscenza contestativa che risolve i rapporti col chiuso limite della realtà (isolana, ma di un’isola emblematicamente universale) attraverso gli strumenti della fuga, e tuttavia d’una fuga che si garantisce dalle soluzioni evasive nella misura in cui si tiene stretta ai propri connotati ironici. Per noi è proprio questa misura di ironia a determinare la stessa validità di quella poesia; in ogni caso sì affida a tale misura la ragione del nostro maggiore o minore consenso critico. Si prenda ad esempio il recente libro-summa di Nino Crimi (Falce naturale, D’Anna, 1974); ebbene, esso apparirà subito come un itinerario della coscienza poetica, impegnata sul piano
duplice .un’ironia ora svolta come divertito ed estravagante “sorriso” sulle cose ma tale da garantire “accordo” e “confidenza” ora colme attiva denuncia (e autodenuncia), d’una condizione al negativo e tale da coprire di luttuoso colore il vecchio mito solare e il vecchio errore. Si prenda ancora il libro più recente di Melo Freni (Dolce terra promessa, Rebellato, 1974), e subito già nell’ambiguità del titolo (dolce: conte patetico consenso e come dissenso ironico) ci rivelerà la possibilità di una sua dualità strutturale e dunque di resa poetica. In effetti può convincere poco certo pur nobile descrittivismo barocco, che fa leva sui segni:dei cinque sensi (tipo Favole; Falò) o slitta sul piano della partecipazione sentimentalistica (tipo Esilio). Ben. diverso è il linguaggio, della denuncia e dei rifiuto, della struggente visione della storia come “maceria”, “simulacro”, “sabbia”, “oblio” “sudario”, “morte” (e “stretta…nodo…morso” o “ferita…raffica…artiglio”), dunque del giudizio definitivo (Ed è finita) non però della resa definitiva. Se infatti può precipitare il gesto sprezzante e disperato di chi, per troppo di delusione, “all’Oca Morta tutte le sere / sputa sopra le bandiere”, o, ancora, se può risolvere, dall’ambiguita stessa dei termini, il dato attivo in inattivo, ma anche viceversa ( così Aspettando: dove la visione atroce di un futuro negato all’uomo, diventa anche motivo parenetico e avverti il memento gnomico a operare finché si è in tempo). E’ allora che la Sicilia sì impone al di là di ogni mitologia ed. emblematicità esistenziale,con la sua autentica misura storica: di generosa “isola stanca” (che non ha mai respinto “i viandanti / pirati e marinai d’ogni colore”, pertanto meriterebbe finalmente un po’ di “pace”), soprattutto di luogo secolare della pena (dove si ammucchiano “salmi secchi di scirocco” e domina “un vortice d’arsura”, tale da non ammettere se non alternative asciutte e luttuose: “la sola certezza partire / o forse morire”). Con effetti che non si fermano, o non si fermano soltanto, alla rivelazione e definizione negativa, ma vanno oltre e si traducono in presa di posizione e ulteriore invito alla scelta. Gli stessi effetti sono della poesia di Cattafi: dove trovi ancora più accentuati i connotati offerti dal Freni, e dunque più ambigui e ambivalenti i risulta¬ti di resa e validità. Ancora dal titolo del suo ultimo libro (La discesa al trono, Mondadori, 1975); e si veda la condizione di dualità dialettica, che mentre fa del “trono” un segno di culmine processuale, ne forza il locus topografico spostandolo dall’alto, come era semanticamente prevedibile, al basso, cioè abisso profondissimo e inferno o, come sì chiarisce poi nel contesto, “fondo roccioso / aspro inebriante della disperazione”‘ Ancora da qui, dunque, la condizione di interscambiabilità del messaggio cattafiano, il quale può puntare tranquillamente ora sull’aspra ora sull’inebriante, più spesso sull’incontro dei due elementi e con effetti strani e straordinari. Ai movimenti centripeti e centrifughi in un loro continuo vorticare e inseguirsi al di là di ogni possibilità di sosta o di stabilità. E’ così che tutto può diventare materia di noia e rifiuto, ma insieme, e contemporaneamente, di pietà e commozione (si veda Me ne vado). E questo vuol dire, a livello esistenziale, la metafora continua in Cattafi – dell’uomo che tenta la sradicatura dei limiti, in nome di un impossibile e forse assurdo sogno di assoluto. Ma non si scordi l’implicito livello storico che tende a ridurre, a sua volta, la metafora in evento e messaggio diretto. Sì potrà così trovare in un libro cattafiano del ’72 (L’aria secca del fuoco, Mondadori) un’intera sezione dedicata a Lo Stretto; si tratta di un’atroce lezione di rivelazioni sulla storia remota e presente della Sicilia: questa “terra e mare d’eccessi”, dove si può passare “dal nitore del mare alla crosta nei cessi” o “dalla frescura del paradiso alla geenna”: e tutto è frutto di rapine (i rapinatori o “ladroni” di sempre: fenici, greci, romani, ecc. e “piemontesi fascisti americani / ultimi solo in ordine di tempo,..”) e gesto di secolare miseria al cospetto di un’illusoria Fata Morgana o di false bellezze. Che è un richiamo struggente alle responsabilità, dunque un segno di provocazione non inefficace, operato sulle indifferenti strutture storico-sociali dell’isola: e qui non importa poi tanto che sia eccessiva la risposta del che fare fino alle astrattezze moralistiche o addirittura alla risibilità:

“E lasciamolo perdere Mameli / il nostro inno lo suona il marranzano / isolana lamina percossa / da un inutile fiato di dolore (il vero inno però sarebbe l’altro / quello secco scandito bruciante / dei beretta e dei breda presi a loro / per noi per nostro conto / puntati e scaricati su di loro”).

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