Miei cari,
pensandovi, pensando all’incontro e a quella bellissima canzone di De Moraes con Endrigo, che mi insegnò il mio caro Francesco e di cui osavo stonacchiare qualche nota di ritorno da Capo D’Orlando in compagnia di Gianluca e Maria Grazia, riflettevo sul fatto che la vita come la poesia altro non sono che “l’arte dell’incontro”. Arte perché non semplice consegna del destino al caso, bensì ARTHMÒS quale necessario impegno e dispendio di energie e volontà perché il caso si faccia destino o, quantomeno, comune percorso fattivo, creativo, condiviso. Ed in questo arthmòs creativo e costruttivo l’incontro non fa che generarsi e rigenerarsi nell’altro, perpetuandosi, rinnovandosi all’infinito. Per questo, amici, vi scrivo qui di quello che chiamo il mio “elogio dell’incompiuto”, o per meglio dire in poche e semplici parole il significato stesso del mio, del nostro vivere. Niente più della vita conosce ogni irrisolto e plausibile risvolto della sua stessa esistenza. L’unica compiutezza della vita sta nel suo esatto contrario, cioè in ciò di cui non abbiamo diretta esperienza e che ci risulta comprensibile solo come suo opposto, ossia non-vita, dunque morte; ma pure dinanzi a quest’ultima possibilità, quale causa, effetto e conseguenza dell’esistenza stessa, non c’è vita che possa dirsi realmente compiuta, finita; giacché è il concetto stesso di finitezza che non ha alcun riscontro nel nostro stato di appartenenza microscopica ad un insieme infinito, inconcluso, irrisolto nel suo equilibrio di incommensurabile ed incomprensibile compiutezza.
Si potrebbe obiettare che il passaggio della vita nel suo contrario segni la fine, quindi la conclusione dell’esistenza, e in un certo senso una simile affermazione pare avere un logico e tangibile riscontro: un corpo vivo agisce, un corpo morto cessa di partecipare all’azione; pur tuttavia, nonostante l’esistenza abbia una sua biologica fine, nel suo svolgimento non fa altro che mettere in moto un ventaglio di concatenazioni tra causa ed effetto, che nella reiterazione a catena e nella continua sospensione di ogni nostro atto in una dimensione atemporale che va a inficiare l’agire dell’altro, rivela una quantità di implicazioni irrisolte che ne determinano la sua effettiva non-fine in aree recondite e non sperimentabili di spazio e di tempo, che continueranno la loro funzione determinante nel concatenarsi di altre cause e altri effetti sull’esistenza del singolo e su quella delle esistenze che per causa ed effetto si ritrovino nelle medesime aree spazio-temporali. La serie delle concatenazioni esistenziali ha un raggio d’azione talmente vasto da potersi considerare l’unicum delle esistenze in un’unica irrisolta, eterna, inconclusa pulsione vitale ed esistenziale, così come siamo noi adesso, così come il nostro operato si continuerà in futuro.
In tutto questo, miei cari, credo che l’azione possa ritenersi necessaria, come la pulsione del singolo nostro dire, quando si fonde in coro, prendendo un’unica direzione che è riscoperta e scavo archeologico per tracciare una “nostografia” dell’anima alla parola che si fa carne.
Ho letto con amore le vostre lettere, ne ho condiviso la passione, la veemenza, il candore dell’enunciato che si offre ad ognuno di noi per segnare la comunione delle radici, ma anche la volontà di una necessaria riappropriazione di un riconoscimento di fatto che ha tralasciato non solo geograficamente ma, e soprattutto, emotivamente le poetiche di eterni secondi o marginali ai comuni e già noti nomi del secolo appena passato. E penso a Cattafi, ma anche a Piccolo, alla Stecher come a Bonaviri…
In questo corollario di stelle fiorisce la nostra azione, siccome fioriscono i sogni di gelsomino nell’immagine per noi mai banale, quanto lo sarebbe – ahimè! – in ogni altro dove, del crepuscolo al rinvigorirsi di ogni suo nuovo albeggiare.
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Vi abbraccio, amici, con l’ansia del nostro prossimo incontro.
Vostra.
L’ha ribloggato su natalia castaldi [storie di un paria che scrive].
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