Vittorino Curci

a cura di Pasquale Vitagliano

Vittorino Curci. Poeta e sassofonista di musica improvvisata, Vittorino Curci vive a Noci, in provincia di Bari, dove è nato nel 1952. Collabora alle pagine culturali di diversi quotidiani pugliesi e alla rivista «Nuovi Argomenti». Nel ’99 ha vinto il Premio Montale di poesia per la sezione “Inediti”. Numerose le pubblicazioni di poesia e prosa.

Testi

Errori capitali di un’epoca

Per effetto di questa mortalità
diffusa, assolutamente inspiegabile.
Mercanti e cammelli
ora sono impasti di argilla.
Sculture di gesso.
Ma l’intelligenza di un ago non mi sfugge.
Sapremo anche noi lasciare sul fondo
un segno di croce, una firma
qualcosa che non abbia significato?
L’utopia fa vita sedentaria
in un appartamento al primo piano e
inchiodati alla carne dell’assenza
gli aspetti positivi, quelli
nessuno li vede.
Migliori perché? Per cosa?
A schiena contratta
e con pochi aggettivi noi siamo
nel silenzio degli angoli, pronti
all’ultimo attacco.
I nostri hanno spiccato il volo
nell’aria di rose. O concretezza.
O vanità della vita breve.


I cuori contenti

Voi che stavate nei colori,
incolpevoli e miti, voi
e la vostra apparente ragione
e tutto questo azzurro
a fior di pelle…
Gli stizzosi al solito
giungono tardi,
quando la cometa
si è già ottenebrata.
Sui sedili posteriori i bambini
cascano dal sonno
inferociscono il volto
con sbadigli
che fermano il tempo.
Sono niente al confronto
l’io ben marcato
l’eternità dei poeti.
Nel cerchio della vita
la solitudine degli altri
all’ultimo sangue…


L’aviatore

si addestrava a una vita normale
fendendo con gesti il cielo di Noci
“Camminare è già una lotta…
buon dio che corri come un pensiero
alle frasi di un bambino…”

opzioni, maschere
un vulcano che vomita il passato…
niente più che un varco tra due obesi
per andare dritto a ovest
e fare progetti, ringiovanire


I resistenti

C’era tutto questo un tempo e io, se tu me lo avessi chiesto, ero pronto a fare i verbi giusti e a cominciare nella bocca il fumo del tabacco.

È stato un sogno da due vissuto in solitudine, per noi che eravamo incapaci di essere noi con quello che avevamo. Non per niente in quel sogno io ci stavo dentro con i miei pensieri di ora, ascoltavo le risposte e poi le domande, e preparavo il riassunto dei molti anni, dalla verità in fuga ai giorni sbrigliati del dopoguerra.

Nel gioco di frizione in salita, persuaso che la padrona di casa e un dio infelice potessero parlarsi, negoziavo con la vita ogni frase.

Quando sarà la stanchezza a vincere, l’immaginazione di quei due avrà un gran da fare e noi, inghiottiti da lacune, saremo lontani dai loro occhi.

Vascelli bruciati per niente.


Partorita da un blocco levigato

Pennellate bianche sull’asfalto
e una provvista di riflessi sul piumaggio dei divi
per future battaglie verbali.
Tutto quello che non sei mi porta a te, e forse
non guasta spostare il peso da una gamba all’altra
per ormeggiare al sicuro le nostre paure, perché tu
non chiedi gratitudine, ti accontenti di vedermi tranquillo
la tua ricompensa è l’invisibile corrimano
nella piana dei caduti.
Seduta sul muretto
guardi la linea sbilenca dell’orizzonte dove
riconosci a stento l’idolatria erosa dal tempo, una fioritura
tardiva, i nomi sillabati di quelle città lontane
che non vedremo.


testualità dei corpi

1.

a te si addice il torpore che festeggia
la vita, il formicolio della quinta ora.
al primo svoltare
è questo il giorno, il vocativo conciso
della macchina del tempo
costruita con le tue mani.
e poi facce, facce una sull’altra.
di ciò che è stato
è rimasto appena un grido

ma anche questo è un tempo
un precipizio di luce
sugli anni che non vedremo.
e sono confusi i pensieri, confusi
i gesti che ci portano alla frontiera
di una terra diversa, ereditata

*

2.

il pittogramma del buon principio,
come una profezia dei boschi, si fissa
per sempre nei tuoi occhi dove
l’ipnagogico sillabare del fuoco
da luoghi lontani, africani
clessidra la forza lustrale del disarmo
e il magistero intonso dei dannati.
riportati a terra, niente è come prima…
nessun pentimento, neanche un cenno
all’albatros depennato al primo rigo…
alla febbrile assenza di un respiro…
alla piovana sequenza di un nome
tra voci sbussolate e nude sulle dune

*

3.

nel ventunesimo delle fortune mancate
la nostra terra è un disegno sulle carte,
il dono assente dei quasiversi orchestrati
per violini scacciamosche.
gli oscurati portano semi nel pugno, luce
imperitura di chi mai pensa alla resa
e al vessillo cencioso dei malvagi
che misura il tempo della fuga e il lontanare
dei frammenti rosicchiati al buio.
ieri invocavamo l’infinire del rubato
per disossare completamente il mare.
la notte per le mani spianava il cielo
a apostrofi di comete…

*

4.

dal corridoio con le luci al neon
scendiamo nell’interrato delle partite
perse, nell’obitorio degli annegati…

l’orecchio buono del silenzio
cade nella pania del talento
e ci esorta a lasciare senza tornaconti
l’andare a capo del braccio e questa
vigilia su cui declina un piccolo sole


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