a cura di Stelvio di Spigno e Mario Fresa
Monia Gaita è nata nel 1971. Ha all’attivo diverse pubblicazioni: Rimandi, commistione di poesia e prosa, e le raccolte poetiche Ferroluna, Chiave di volta, Puntasecca, Falsomagro e Moniaspina. Collabora ai principali periodici italiani di poesia ed è redattrice di Gradiva, rivista internazionale italo-americana fondata da Luigi Fontanella. Cura inoltre la rubrica Fabulando su Guidailibri, mensile dell’editore Guida. Diversi sono i saggi che analizzano la sua scrittura e le sillogi antologiche in cui è inserita; tra le più recenti antologie, Le trincee del grembo (Lucaniart 2014).
Presidente con Elvira Micco del Premio di poesia e giornalismo Giuseppe Pisano, è impegnata in attività di promozione culturale. Numerose riviste si sono interessate alla sua poesia: Sìlarus, La Mosca, La Clessidra, L’immaginazione, Critica Letteraria, Sinestesie, Gradiva.
Testi
*
Accetta
Accetta
la trapunta d’oro
di questo mio parlarti
trifoglio che trasemino
nel buio
cagione occulta
con cui salgo all’origine
dei tempi.
Prendi quel fuoco debole
che media
tra lo sfascio
ed il raggiunto
cospargine la cenere
sui giorni
gorgoglia
nel camoscio fatto culla
come un’acqua.
Ma non pretendere da me
che io soggioghi
il torto del tuo niente
in uno slancio.
Siamo nel vuoto.
Nel limite di guardia
della resa.
E contro i guasti del deluso
appena un apice di sconto
prende forma.
***
Azzurro
Rientri
nel novero dei sogni
all’improvviso
sotto la processione offertoriale
delle stelle.
Tacciono tutti
i contrabbassisti degli sfasci
ora che posso sgranare
pannocchie di migliore
e spicco
oliviformi acini di bello
al tuo passare.
E faccio ghiotti bocconi
coi tuoi sguardi
elevo di sei piani
le case
all’emozione
mentre dal cielo
la luce si prosterna
dandomi scappatoie di chiaro
in luogo
di clausure.
E nel poligono di viole
del tuo nome
rivive il cuore
azzurro
che si crogiola
alla pace.
***
In questa terra
Alla Calabria e al mio amico
Domenico Cara
Il mare ha scaglie bianche
sotto lo schematismo fisso
delle rocce
dove schiarisce
la fronte d’un mistero
senza tempo.
Il sole
coi denti a sciabola
si scinde in più correnti
scioglie la comitiva
delle nuvole
scola
sul collo di bottiglia
d’una palma.
Compare e scompare una nave
all’orizzonte
mentre sconfino
nei pascoli a matita
delle forme.
In questa terra
l’insonnia è antica
al fuoco della notte
nel debito cresciuto a dismisura
dentro i sassi
disposti in fila e a dune
dopo me.
***
La deriva
Febbraio
fa scricchiolare i denti
dell’azzurro.
Il sole
è giunto all’improvviso
lungo i rami
ora decorre al piano
interseca in più strade
e in più canali
i suoi detriti.
Un’orma di stanchezza
dimora
nel diametro d’inganno
del mattino
avvia un racconto di monotono
coi luoghi
descrive un largo giro
d’invadenza
nel pensiero.
M’intrufolo
tra i fili d’erba
e il nastro delle case
un tronco
ancora non bruciato
dalla neve
la sciarpa intorno al collo
dell’inerzia
e la deriva che s’intorbida
di un fiume
nelle mani.
***
Non credo in niente
Vorresti che io prestassi
il petto inerme
ai colpi della pioggia
che l’ala del tuo vento
sbattesse indivisibile
sui vetri
del mio campo.
Tu mi vorresti rettilinea
percossa e risorgente
riversa
su una risma di farfalle
che addormenta
a rafforzare le strutture di metallo
ad altri anelli.
Ma io non posso appartenerti
lasciarti transitare
sulle taniche del vuoto
preso a morsi
tenerti
nella trappola d’un voglio
travasato per errore
quando non credo in niente
non credo in niente,
non credo in niente.
***
Regalami
Suoni e risuoni
nel mio cuore
tutto il giorno
porzione vivida di volo
che detona
arrampicandosi con mani e piedi
sulle ossa
nell’ulna
di ogni angolo di fiato
che prosciuga.
Radichi in tutti i miei terreni
di volere.
Solfeggia
lo spartito del tuo nome
sui minuti.
Regalami
l’avena dei tuoi occhi
che vacilla
ora che leggo a mente
la tua voce
e che risolvo
in grazia di promessa
l’aspettare.
***
Sono lontana
Ho provato a cercarti
mio Dio
e ho creduto di vederti
dove l’argine d’un fiore
alla furia delle acque
diviene opuscolo di remi
per risalire
all’origine dei cieli
a quell’orlo di tetto,
orma profonda e prima
da cui
siamo caduti.
Ma la conca d’oro
dal pendolo che oscilla
si è spezzata
e crescono le ortiche
adesso
al tentativo.
Sono lontana
dalla sostanza ossea
del tuo dire
mentre rimargino
ferite e disinneschi
al poco avere.
Sei nell’insegna provvisoria
di questo vento che m’assedia
dove il deluso irrora
le viti
alle giornate.
Sei la pupilla d’irrisolto
che dilata
la tavola di ombre
che s’allunga
nella sera.
*