di Ivano Mugnaini
“Inizia dall’inizio e vai avanti finché non arrivi alla fine: poi, fermati”. Seguo il consiglio del Re di Cuori di Alice nel paese delle meraviglie per scrivere la frase d’esordio di queste annotazioni sul recente libro di Maria Teresa Coppola. Seguo il consiglio perché è saggio con sprazzi di profondità indocile celata sotto un velo e dietro uno specchio solo in apparenza liscio e fedele. Quindi è un consiglio perfettamente consono al libro. L’inizio dell’inizio è qualcosa di ineludibile: “C’è di più”. La perentoria affermazione campeggia nella copertina a fianco della foto di una scultura di Igor Mitoraj, possente e misteriosa come la frase che accompagna, assimila e incarna.
Ciascuna lettrice e ciascun lettore porta con sé, pagina dopo pagina, l’eco interiore di quelle quattro minuscole e colossali parole. Le usa come chiave per penetrare all’interno di ogni lirica ma anche per effettuare un inevitabile confronto tra i propri orizzonti, ricordi, sogni e parametri esistenziali con quelli dell’autrice.
“Sento che siamo la terra, / eppure riusciamo a volare”. Sono i due versi conclusivi della lirica di pagina 15 che si apre con una terzina breve, otto parole in tutto, in grado di fornire un primo possibile indizio, additando una strada, complessa, sassosa, eppure potenzialmente foriera di mutamenti: “Facciamo accadere/ quello che senza noi/ non accade”.
È questa la “luce segreta” dei fiori “che s’aprono di notte/ e parlano con la luna”. Ecco, credo che perfino il Re immaginato da Lewis Carroll potrebbe essere d’accordo: abbiamo un inizio, una strada da percorrere a occhi spalancati, cercando la semplicità in ciò che appare complesso e un senso ulteriore in ciò che sembra univoco, lineare.
Possiamo avere, forse, quel “di più” che rende la vita degna di essere vissuta se comprendiamo che le risposte sono dentro di noi, anzi, siamo noi, nel momento in cui diventiamo un tutt’uno con la luce segreta che si apre nella notte, del cuore e del tempo. Nell’istante in cui impariamo a parlare con la luna, ossia con un volto e una voce mutevoli, cangianti, in grado di racchiudere luce e oscurità, la realtà e quel qualcosa che va oltre, perfino delle verità consolidate.
“Fra l’ultima parola detta / e la prima nuova da dire / è lì che abitiamo.” I versi di Pierluigi Cappello qui riportati sono stati scelti con cura dall’autrice e posti a fare da esergo. È un “fuori opera” che a ben vedere si integra perfettamente con le liriche del libro e anche con quanto si è accennato qui sopra in riferimento al percorso, della scrittura e della vita, in cui il passo già compiuto e quello successivo si uniscono fino a sovrapporsi, identificandosi, senza che niente venga cancellato o confuso.
L’identità di ogni attimo e di ogni stato d’animo resta definita ma si innesta e si sublima in un flusso costante. In quel luogo abitiamo, nell’atto di esserne abitati. Abitare deriva dal latino habito, che a sua volta nasce da habeo (avere). Il verbo abitare in termine tecnico si dice “frequentativo”. In pratica il significato di avere viene reso più intenso con un’azione duratura, ossia prende il significato di avere per più tempo, dimorare. In quest’ottica, si può forse dire che c’è di più, per noi, nel momento in cui siamo capaci di dimorare in noi stessi.
Dimorare in noi stessi è possibile, perfino nella solitudine, solo se pensiamo al nostro essere in riferimento agli altri, perfino nel dolore dell’assenza, dell’abbandono, del ricordo amaro. Oppure, come accade in molte delle liriche di questa raccolta, se pensiamo noi stessi nell’atto di amare, di avventurarci sui sentieri irti e sconnessi dell’amore; il solo, comunque, che fa volare verso i cieli dei fiori che parlano con la luna.
In quel punto esatto si colloca l’intersezione tra quello che siamo stati e quello che siamo e saremo, o sogneremo di essere, e con ogni probabilità non c’è alcuna distinzione tra vita reale e vita immaginata. Perlomeno non c’è nelle parole e grazie alle parole. Le parole sono la bussola del percorso e il percorso stesso. Solo grazie a loro, mettendo in connessione passato, presente e futuro, verità e fantasia, siamo noi stessi. “Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere.” Ecco, in questa affermazione di Emily Dickinson c’è il punto di incontro con quella luce lunare fatta di bene e di male, di piacere e dolore, in cui possiamo gettare le fondamenta per abitare il mondo.
“Voglio arance candite per te, / voglio cristalli / e uccelli e vino e vesti colorate, / voglio abbandoni e voli, / albe dorate e tiepidi tramonti / e sere profumate”. Sono questi i primi versi dell’autrice che compaiono nella raccolta. Esordisce così la lirica iniziale; ed è allo stesso tempo delicata, soffusa e dionisiaca, richiama danze al confine tra sacralità ed ebbrezza, lievità e densità dei sensi. “Voglio tarante e noia / e luce chiara e sguardi levantini, / gelsomini e gelsi mori e bianchi / per le mie carezze, / voglio cullarmi al miele della voce, / la tua voce di seta, amore mio”. Il riferimento agli sguardi levantini ci colloca in un contesto preciso, spaziale e forse anche temporale, quel tanto che basta però per darci il senso di un’universalità data da codici nascosti di suggestioni che passano attraversano la mente per giungere al corpo e tornare nell’area del cervello pregni di sapori e profumi.
L’amore è uno dei fili con cui e attorno a cui l’autrice intesse la tela del suo libro. La poesia citata nel paragrafo precedente è stata apprezzata, me lo ha riferito l’autrice stessa, soprattutto da un pubblico femminile, da lettrici donne. Tuttavia, ritengo, avendo avuto il piacere (e non si tratta di un modo di dire) di leggere sia la lirica in questione che l’intero libro, che la poetica della Coppola vada sempre al di là e oltre le linee di demarcazione precostituite. Perfino nella poesia iniziale, che potremmo definire “iperlirica”, ci sono riferimenti che stemperano il clima inserendo un accordo in apparenza discorde, o almeno inatteso, come in “voglio tarante e noia”, ad esempio. L’accenno alla noia costituisce una variazione sul tema che cambia per un attimo tono e coloritura dello spartito, senza tuttavia minimamente scalfire il quadro orientaleggiante di sensualità e dolcezza. Introduce, con un virtuosismo non forzato, il tema principe del libro, l’amore nelle sue infinite forme e manifestazioni, nelle miriadi di umori che origina, dandoci vita o annientandoci, di struggimento, di pena, di nostalgia, o anche di quella noia che, nel chiarore lunare, diventa essa stessa poetica.
I termini concreti, lo vedremo più avanti in modo più palese con riferimento ad altre liriche, sono una costante che l’autrice, per scelta o per istinto, dissemina tra i versi, quasi a volere ricordare a se stessa e ai lettori che “siamo la terra, / eppure riusciamo a volare”. Siamo fatti di carne, ossa, fardelli di tessuti, di errori e a volte di orrori. Siamo terra, polvere non di rado sporca o fangosa.
Ci salva, tuttavia, il pensiero incorporeo che diventa realtà: “Quando mi parli / fai veliero la mente, / la carichi di spugne / ad assorbire ricordi / che nulla sfugga / e tutto si conservi / per berti dopo, / quando non ci sei / e Bacco mi presta / redini colorate / a guidare la sua coppia di linci”. Il mito diventa gesto quotidiano, inebriamento lucido, passione che sa ricordare e conservare facendo tesoro del mondo e di se stessa.
A pagina 13, nella lirica immediatamente successiva, il tema viene percorso con ulteriori immagini e metafore, in un mosaico unitario: “Ti stendo / sugli occhi stanchi / tiepida garza di respiro, / riparo ti scivolo nel sonno, / parole ti rannicchio / nell’orecchio / indifeso dal cuscino / come fusa di gatte bambine, / ti sbuccio pensieri per domani.” Le parole si fanno corpo, braccia, gambe da rannicchiare, fino a diventare un’entità unica, umanissima, fatta di stanchezza e di sogno, quasi a porre fianco a fianco i gesti del lavoro, i viaggi, gli spostamenti sul cemento dei marciapiedi, e, un passo oltre, la dimensione onirica, specchio anch’essa di un mondo ignoto, da cui l’amore vorrebbe proteggere l’amato.
Un nodo intertestuale, visualizzabile in color arancio, è in quel verso intenso e giocoso allo stesso tempo, “ti sbuccio pensieri per domani”, un gesto di affetto molto femminile, a suo modo materno, accostato però abilmente al sensuale “fusa di gatte bambine”. Il verbo sbucciare, per una mia personale sensazione e assonanza forse forzata, da cui però è bello lasciarsi trascinare, ci riporta inoltre al primissimo verso della raccolta, quel potente “Voglio arance candite per te”.
Il Re di Cuori di Alice forse ha ragione di nuovo, l’inizio conduce alla fine perché la fine è già nell’inizio e viceversa. Entrambi sono strade, percorsi dove transitano le infinite forme di amore e di dolore che abitano la vita e che dimorano in ogni essere umano dotato di ragione e sentimento. Intanto, tempo e spazio cambiano costantemente, in un’evoluzione che è conflitto, mutamento perenne. Resta l’amore, il più semplice e arcano mistero da risolvere senza pensare, abbandonandoci a lui. Perché nel frattempo la città “timida dietro le tende / si adatta all’alba, / trasuda dal vetro caldo / e la luce litiga con le ombre / e le disperde”. Non si tratta solo del frequentatissimo topos del carpe diem. Qui ancora una volta la ricerca dell’amore diventa ricerca di salvezza e di identità autentica: “Ben presto, / ci mancherà un sogno / in cui nasconderci”. Quel sogno, è necessario confermarlo, è la sola realtà in cui noi siamo veramente noi. Siamo quel di più che deriva da un’operazione aritmetica solo in apparenza agevole: sottrazione di ciò che ci è estraneo e alieno e somma di un sentire univoco, corrisposto senza demarcazione logiche, fino alla compenetrazione.
Sì, perché questo libro che può sembrare liscio e gentile, a ben vedere, come già accadeva con Sottovoce, la precedente pubblicazione poetica di Maria Teresa Coppola, sotto veli sfumati e toni suadenti in realtà fa mulinare al massimo della velocità e della forza la mente, il corpo e il cuore. Contiene passione e riflessioni che seppure a passo soave, senza strepito, superano i giardinetti sereni e si inoltrano tra prati che contengono sì fiorellini aulenti ma anche serpi ineludibili e altri animali metaforici da cui non si scappa; bisogna guardarli e parlarci. “Ti nutrirò come un baco, / ti ucciderò / prima che diventi farfalla. / Della tua seta / tesserò uno scialle / per restare nel tuo abbraccio. / Inciderò il tuo nome / su frecce avvelenate, / sulle tue spalle saggerò / la correggia nuova della frusta”.
Anche la fiaba e i miti mutano pelle, nella forza della mente soggetta alla pressione possente dell’attrazione fisica e viceversa: “Nella casetta di marzapane / distillerò veleno dolce / Intonerò litanie sacrileghe, / aprirò la seconda finestra / dello Zohar / per liberare Aspide, / la stella dei sortilegi”. Solo nei tre versi conclusivi di questa rutilante e tagliente lirica ci viene rivelato che le immagini sono figlie dell’inconscio: “La notte è ancora in me. / Sanno essere crudeli / i sogni degli innamorati”. Resta comunque l’eco dei suoni e il lampo negli occhi e viene fatto di pensare che, nella vita e soprattutto nell’amore, la notte è più luminosa del giorno e il sogno rivela desideri e passioni tanto possenti da sconfinare nelle pianure assetate del reale.
La Coppola non nega a se stessa e chi la legge il gusto e la necessità di spaziare libera in tutti i territori della psiche e della sfera amorosa, eros compreso. Alterna e affianca, in una vivida rapsodia, componimenti dolci e liriche acuminate. È interessante notare che ogni poesia fa storia a sé eppure si inserisce alla perfezione in quel mosaico più ampio da cui alla fine deriva un ritratto della vita e dell’amore in grado di fare intravedere immagini contrastanti, dissonanti. Ognuno può tentare di identificare nel quadro generale il volto che maggiormente corrisponde al suo sentire, all’idea, al modello che ritiene più calzante.
Resta, comunque, la sensazione che ciò che vogliamo vedere o crediamo di vedere siano i nostri stessi dubbi, le illusioni e le delusioni di cui nutriamo i nostri giorni: “Hai inciampato su di me / come in un secchio d’acqua / che da troppo tempo stagnava / dimentica di sé / in solitario abbandono. / Dormiva, senza sogni, / il sogno di esistere”. Qualche verso oltre, ancora più nitida e chiara, la formula, l’attestazione dell’inganno: “quel che ti vendo / è soltanto / un formulario d’inerzia, / la mia acqua che scorre / dacché l’hai rovesciata, / un almanacco che recita / desideri fantasma. / Non sono là dove, fiero, / credi di avermi / mentre nei pugni / stringi soltanto / gusci vuoti di conchiglie”.
La tematica del sogno pervade il libro. È frequente e fertile di evocazioni di atmosfere che si collocano (e ci collocano) nel punto in cui possiamo cogliere la visione d’insieme e i singoli dettagli. Da quella collocazione specifica il discrimine tra la “realtà” e il “sogno” si fa esile fino a scomparire. “Cinque sensi non bastano / per celebrarti, / per prenderti e tenerti / per farti me / come un braccio, / un piede, / un sorriso. / Altri ne suggerisci / e li avverto, / nascono con te e da te, / si perdono / se te ne vai”.
Non esiste la realtà se non in quel valore aggiunto (crudele ed essenziale) che è l’amore. Si tratta di una semplificazione, certo, ma nel momento in cui se ne ha esperienza tutto diviene assolutamente lineare nella sua complessità. Un po’ come avviene in questo libro. Un po’ come accade nella vita: “Non destarti. / Stai. / Nascondi / dietro i sogni / teodicee vaganti / e noia di esistere. / Respira. / Barattoli di luce azzurra / ti servirò a colazione”. Il concreto e l’incorporeo: il sole servito in un contenitore di plastica o di alluminio.
Su questa base, in un crescendo spontaneo, l’autrice abbandona le ambientazioni prive di coordinate e ci conduce per qualche istante in un tempo ben definito, con un piano sequenza alternato a dettagli precisi: “Ritrovo / Via Pola 6, / le tortore insistenti, / odore di persone felici, / Paolo Conte in sordina. / I pini bussano alla finestra / e li lasciamo entrare, / ci sono cuscini per tutti. / Il tempo è fermo nel lino fresco / ad aspettare l’anima / e farla durare / come un’ape addormentata / nel grembo di un fiore”. E come spesso accade nella poesia della Coppola i versi conclusivi racchiudono, come nel grembo di un fiore, tutta la fase preparatoria fatta di elementi, oggetti, spunti di riflessione che si sublimano in distici, istantanee poetiche, in cui tutto il “succo” è racchiuso, e rimane.
Questo “procedimento” si trova in numerosi componimenti, tra cui quello di pagina 29 che nella parte finale contiene questi versi: “Mi pare di seguirti / in sospeso, / come in un’attesa / nei silenzi / ancora accovacciati / negli angoli bui. / Invece, / mi addormento d’amore”. Il verso conclusivo, esteticamente pregevole, non è fine a se stesso, è giusto ribadirlo: si colloca sempre all’interno di una storia, una vicenda, una dinamica esistenziale, un amore corrisposto, appagato, oppure lacerante di solitudini e inganni. Sempre, in ogni caso, umanissimo.
Non dimora in una torre d’avorio, Maria Teresa Coppola. La vita non le scorre solo attorno ma anche dentro, tra folle e solitudini, dialoghi e silenzi, sintonie e ribellioni. È conscia del bene e del male. Non grida, non lancia invettive. Ma si schiera, in modo inequivocabile: “come un bambino inerme, / tenero, travolto / da consuetudine / che non è più / nemmeno un rito, / fissato nel vuoto / lo sguardo dolce, / lungo e verde / non più divagante, / sottratto all’erba e al vento / alla carezza del sole / dalla nostra indifferente rapina, / imperturbabile ferocia. / Riparerò la mia vita / riparando la sua”. Una scelta, netta, a favore di chi, animale o persona, non può difendersi, ed è vittima di indifferente rapina e imperturbabile ferocia. I due versi conclusivi, anche qui, aprono spiragli che accolgono il senso di tutta la composizione ma vanno anche oltre. È possibile ed è bello pensare che quello che “c’è di più” sia la possibilità di scegliere e di riparare la propria vita riparando quella degli altri.
Lo sguardo rivolto al mondo animale e della natura è rivelatore: “Alberi che ci osservate / da tante più vite / misteriosi custodi / conoscenza profonda / racconti di radici / crocevia di voli / benedite / la mia finitezza, / limite, / respiro circoscritto, /asfittico non sapere”. Non si tratta di un semplice specchio. È un punto di partenza per recuperare l’essenza più autentica del proprio essere e anche per intravedere, nella purezza di una luce non umana, ipotesi di risposte: “Non spazzerò una foglia / senza tentare / di decifrarne il messaggio / né lascerò ritrarsi un’onda / senza provare / a leggerne il ritmo”. Fino a giungere ad un consuntivo schietto, onnicomprensivo: “Per troppo tempo ho scandagliato / il fondo dell’anima. / Il segreto deve essere altrove”.
Da qui può nascere un progetto, un programma vitale, nel senso stretto del termine: “mutare in miele / la ferocia del fuoco / e il deserto in poesia”. Con la consapevolezza di fatti concreti che sono anche segnali, indicazioni lungo la strada da percorrere: “Sono nata in ritardo sul tempo / e in anticipo sul giorno”. Con il coraggio di guardare le cose come sono, non come vorremmo che fossero: “Troppo tristi giornate / trafiggono / il mondo, la gente / di ordinaria, / tremenda ingiustizia, / apocalissi in agguato”. Necessita dunque ipotizzare rivolte senza certezze, senza illudersi che possano mutare di colpo la natura delle cose e delle persone. “Ti chiedi / se hanno / ancora occhi per vedere, / voce per dissentire, / cuore da spendere, / almeno un poco, / ché tanto, la vita, / riesce comunque / a spezzarlo”.
La raccolta di Maria Teresa Coppola possiede la capacità di evitare punti di vista monocordi e sentieri piani e rettilinei. In C’è di più non di rado sussistono, fianco a fianco, in pagine consecutive o perfino nello stesso componimento, sensazioni diverse, rivelazioni, “agnizioni” esistenziali contrastanti. “Non sapevi d’aver per la vita / dotazione finita di parole / e spegnerai per vendetta / le candeline della torta / in uno sputo”. Un passo oltre, nel componimento successivo leggiamo: “Anche se non ci sei, / anche se manchi / le tue parole, / gli sguardi / ancora mi attraversano, /continuamente, / come fa il vento / in una stanza senza vetri”. Non si tratta di un puro e semplice divergere di senso. È qualcosa di più: un coesistere di due angolazioni simultanee. Un po’ come potere osservare le due facce della luna simultaneamente.
Da questo sguardo fertilmente strabico, tra Giano e Venere, emergono timidi ma preziosi semi di risposte che possono crescere dentro chi le ha scritte e anche in chi le legge o le leggerà: “Neanche gli anni mi aiutano / a sconfiggere il muro. / Non c’è cavallo né volpe, / né tranello vincente / avverso la condanna / del non amarsi abbastanza”. Un passo più in là, un monito a noi stessi: “Non bastano ali di cera e fango / se sei “sogno di un’ombra” / e lo dimentichi. / Abbandonarti al sole, quando rinasce / saperti inerme, la tua unica arma”.
Questo intenso libro, in cui ogni lirica vale la pena di essere letta, perché racchiude un mondo autentico, privo di vuota e fittizia retorica, ci offre una riflessione assolutamente individuale, propria dell’autrice, che tuttavia sa farsi universale senza forzature, senza promettere la soluzione all’enigma dell’esistere né la formula della felicità o della pietra filosofale. Parla a tutte e a tutti questa raccolta perché l’autrice ha annotato e lasciato decantare dentro se stessa emozioni sincere, momenti intensi in cui ha visto in uno stesso volto bellezza e feroce imperfezione. Racchiude e rivela un percorso di riflessione mai disgiunto dalla vita vera, questo libro. E consapevolezze spesso amare ma sempre vere: “Posso cantare solo in solitudine. / Nuda, come fanno gli alberi / incontro al gelo. / Solo quando / la mia ombra si fa leggera / e mi lascia alla trama del buio. / Alla vita posso dire che l’amo / solo se non mi guarda, / se si distrae, se non commenta”. Si trova allora un’ipotesi di soluzione al rebus del titolo, e con esso agli enigmi arcani ma imprescindibili dell’umana esistenza: “C’è di più. / In quel che di te hai raccolto / nelle cose nei volti / nelle storie nei suoni / persino nei sassi […] Rincorrere non serve, / piuttosto sostare, / masticarsi dentro / tracce intuite, / forme sempre altre, / derive verso nuove galassie / che senza dirsi mutano / e puoi solo sfiorarle”.