Giulia Sonnante su “Lo specchio di Leonardo” di Ivano Mugnaini

Lo specchio di Leonardo: una prospettiva fantastica

Se possiamo accostare Lo specchio di Leonardo, romanzo di Ivano Mugnaini (Edizioni Eiffel, Salerno, 2016), ad una figura geometrica, questa è certamente il prisma: le sue facce laterali, incise da un raggio, rifrangono la luce deviandolaclamorosamente; un romanzo poliedrico, dunque, che sfugge ad ogni rigida tassonomia.

Siamo nel 1498 quando una violenta tempesta costringe Leonardo, genio del Rinascimento, ad interrompere il viaggio verso il castello del duca Sforza per trovare riparo in una locanda del Mugello. Qui, il caso vuole che il protagonista incontri il proprio sosia, il copista Manrico:Era incredibile, eppure evidente, reale. Nell’angolo opposto dello stanzone, intento a bere e a scrutare la finestra sferzata dalla pioggia, c’era un uomo del posto, un villano, un montanaro dall’aspetto identico al mio. Un altro me, stesso corpo, stessa faccia ed espressione, una replica perfetta.” (p. 21) Così, il verosimile sfiora l’inverosimile, l’incredibile lambisce il reale come l’acqua la sua sponda per dar vita ad uno straordinario gioco narrativo.

Una solida cornice storica cinge il volto del romanzo, ciascun episodio, accuratamente documentato, segna il cammino artistico del genio: dal primo incarico pubblico, la pala per la Cappella di San Bernardo, fino alla battaglia di Anghiari.

Sulla sponda opposta, lo “strano” (uncanny), come una scheggia impazzita, coglie la superficie del reale fendendola clamorosamente: il sosia.

Sarebbe dunque audace ricondurre Lo specchio di Leonardo ad un racconto fantastico? O la giustapposizione dei piani narrativi è propria della finzione letteraria tutta? Certo è che la duplicità del romanzo si sposta dal piano formale a quello tematico.

    Il tema del doppio, proprio della letteratura fantastica, da The Castle of Otranto(1764) di H. Walpole, fino a The Picture of Dorian Gray (1890) di O. Wilde, passando per The strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde (1886) di R. Stevenson,per citare solo alcuni romanzi inglesi, rappresenta in Lo specchio di Leonardo unostrumento privilegiato di indagine psicologica. Così, Leonardo confessa: “Mi sentivo immerso tra folle eccessivamente numerose ed estranee, popoli pieni di infiniti mali. Forse li vedevo in tal modo perché facevano da schermo deformante al mio male, il mio interno disagio. (p. 33) Per questo, quando Leonardo propone a Manrico lo scambio d’identità, dichiara:” […] finalmente privo di catene, avrei viaggiato nel mondo, nella memoria, e dentro di me, applicandomi con cura alla dissezione della mia mente e dei miei desideri con i coltelli affilati del tempo e della sincerità. E, una buona volta, avrei potuto vedermi vivere, o ancora meglio, osservare come gli altri mi vedevano o credevano di vedermi: le falsità, i commenti velenosi, le pugnalate appena voltata la schiena.” (p. 23). Nelle vesti di Manrico, Leonardo può mescolarsi alla gente e finalmente vivere, dando libero sfogo alle inclinazioni più nascoste: si concede un rapporto con una giunonica prostituta, incontra una veneziana che, nei guai con la giustizia, non troverà il coraggio di salvare.

    La nuova vita di Leonardo, nei panni d’un sempliciotto, sembra dunque funzionare: Osservavo lui e vedevo me, le idee che erano prigione e sogno, gabbia e volo. Stavo per inoltrarmi sull’orlo di un crepaccio e, come aggravante della mia follia trascinavo con me la mia ombra fattasi carne.” (p. 24). Qui, la scelta sempre accurata delle parole conferma la dicotomia del romanzo: l’ombra si fa carne, la prigione s’oppone al sogno, la gabbia al volo per indicare , l’attaccamento al sosia ma anche la necessità di liberarsene: “La mia immagine riflessa, il tentativo vano di sfuggire allo specchio tramite un altro specchio, era il fardello più gravoso, la prova di un fallimento. Dovevo liberarmi da quell’ombra che stava diventando a poco a poco la carne e la mente. Il gioco si era fatto letale, la beffa si ritorceva contro se stessa.” (p. 64)

E come il vento che sferza le bianche scogliere di Dover, tornano alla memoria i bei versi di Alfred de Musset: « Partout où j’ai voulu dormir, / Partout où j’ai voulu mourir, /Partout où j’ai touché la terre, / Sur ma route est venu s’asseoir / Un malheureux vêtu de noir, / Qui me ressemblait comme un frère. » (La nuit de décembre, 1835)

    Ma la tesi del fantastico sembra scricchiolare; occorre cercare un raggio più tenaceche non devii la direzione perché un tema ricorrente non basta, in realtà, a definire un’opera d’arte e soprattutto la bellezza non passa attraverso vacillanti teorie. La bellezza è nella parola e in ciò che in essa muove e commuove, perché: Tutto, perfino il nulla, ha corpo nella parola, / e la sua assenza di sostanza è pietà, / misericordia nella tortura che ci consuma, / il “foco che ci affina”. (I. Mugnaini, “Con sollievo in La creta indocile, Oèdipus, Salerno, 2018)

E così, sbarazzandoci di inutili orpelli, scorgiamo l’autore sul ciglio del romanzo. Con un sorriso appena accennato, s’avvicina, aprendosi un varco tra le parole ed insieme, poi, ci chiniamo per raccogliere i gelsomini perduti per strada. Così accovacciati, leggiamo: “Forse la soluzione, l’unica possibile, è in un riso di pietà, quello che mi sono sempre negato. Forse nell’ironia aspra e lieve dell’accettazione dello stato delle cose, c’è una strada, ovunque essa conduca. Dev’esserci stato lasciato un segno: seppure arduo, intricato, perfino bizzarro, per giustificare l’esistenza, il piacere, il dolore, il tempo che scava come un aratro rugginoso.” (p. 26) Sembra essere questa la chiave del romanzo e dell’intera esistenza ma, con immutato sorriso, l’autore s’allontana perché le parole, cura dello spirito, si facciano gesti d’accudimento.

    Se l’accettazione è la risposta, riuscirà Leonardo a integrare le diverse parti di sé? In altre parole, allontanerà il sosia, Manrico, o lo accetterà, lo riconoscerà come parte del tutto? Un senso d’angoscia, il “perturbante” per Freud, invade i pensieri di Leonardo quando realizza di volere tenere separato Manrico dalla sua vita: “Dovevo allontanarlo da me, lasciarlo distante, a vivere la vita di Leonardo, l’artista e lo scienziato, mentre io, da solo, avrei cercato il cammino reale per annientarmi e rinascere. (p. 50). La tensione si stempera con la manifestazione di una possibile soluzione, la terza via: un riflesso. Occorre, sottolineare, a questo proposito, che la letteratura fantastica non raggiunge mai la stabilità; di tante possibili strade non ne imbocca alcuna, resta al crocevia, esita, semina il dubbio, tendendoall’indifferenziazione. Per questo, il tema del doppio è in essa così frequente; cosicché, Frankenstein si confonde facilmente col mostro, il Dr. Jekyll con Mr. Hyde e Manrico con Leonardo.  

    L’epilogo di Lo specchio di Leonardo, appare, in questa prospettiva, fantastico, poiché Leonardo, ormai stanco, guarda la sua immagine riflessa, forse deformata da uno specchio, e rinuncia a comprendere il mistero. Neppure il genio riesce, dunque, a trovare il raggio più tenace che, rifratto dal prisma, non si spezzi, non devii la direzione; tuttavia, ne guadagna in grandezza ed umiltà, poiché arretra di fronte al mistero dell’universo: “I understand better the meaning of his stare, that could not see the flame of the candle, but was wide enough to embrace the whole universe, piercing enough to penetrate all the hearts that beat in the darkness. He had summed up – He had judged. ‘The horror!’ He was a remarkable man. (da: J. Conrad, Heart of Darkness, 1902)

                                                                                                              Giulia Sonnante

 

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