LIFE IS LIFE L’albatros che danza – di Ivano Mugnaini

di Ivano Mugnaini 

Ho esitato a lungo prima di scrivere questo “ricordo”. Ho aspettato che fluisse la marea dei peana e delle invettive, delle esaltazioni enfatiche e delle accuse, dei sinceri e dei falsi, dei predicatori e degli invidiosi. Ho esitato più che ho potuto ma nonostante l’attesa so che questo ricordo non piacerà. Non piacerà a chi lo vuole dio perfetto e onnipotente e non piacerà a chi lo considera la personificazione del vizio e del male.

Non importa. Glielo devo. Lo devo scrivere. Per gratitudine. 

Lo devo a lui. Anzi all’idea di lui che ha saputo generare in me e in milioni di altre persone. Lo devo alla bellezza del calcio che Maradona ha saputo salvare. Da tutto, perfino dai meccanismi del mercato, perfino dalle assurdità strangolanti della vita. Perfino da sé stesso. 

Questo pezzo non parla di lui. Parla del sogno e parla della realtà, del loro dissidio e del loro legame. Dopo il memorabile goal all’Inghilterra ai Mondiali del 1986 un commentatore argentino definì Maradona “aquilone cósmico”. Un altro cronistaesclamò una mezza dozzina di volte un poema de goal!

Se si accosta Maradona alla poesia, mi viene in mente l’Albatros di Baudelaire: “Il Poeta principe delle nubi / sta con l’uragano e ride degli arcieri/ esule in terra”.

Maradona è stato un albatros che rideva e sorrideva. Dissimile, in questo, da un altroalbatros, Fausto Coppi. Anch’egli atleta fuori dall’ordinario, per doti fisiche e talento. Il ciclista piemontese era malinconico e possente come una strada di montagna percorsa da solo, là, davanti a tutti, con una maglietta bianca e azzurra, un cielo che guarda muto, un destino che chiama a sé.

Maradona era un albatros che sorride. Di gioia, di esuberanza. Quando era nel suo elemento naturale, il campo di calcio, con un pallone tra i piedi danzava, sorrideva, cadeva, si rialzava e danzava ancora.

Volava, sul campo, Maradona. I suoi compagni di squadra e gli avversari dicevano che quando ti correva accanto sentivi un fruscio, un alito di vento, un pensiero felice. Entrambi imprendibili.

In varie interviste Maradona ha affermato che dentro il campo c’è la felicità.

Los dolores se van. La vida se va. Se ne va quella parte della vita che è frustrazione, pena, pesantezza. Resta il privilegio, la leggerezza del gioco.

Maradona voleva dare la felicità. Lo ha ripetuto decine di volte. Lo ha detto riferendosi ai tifosi dell’Argentina. Lo ha detto ai tifosi del Napoli. Voleva farli felici. Voleva realizzare quello che neppure gli dei sono mai riusciti a fare: rendere felici gli uomini. 

E rispondeva ai giornalisti che gli chiedevano come si sentisse a essere consideratoun dio, con un sorriso che nascondeva chissà quali pensieri: “Io credo che sono cose differenti”. 

Maradona ha voluto rendere felice una città che ha subito e vissuto umiliazioni per secoli.

Napoli era la città perfetta per Maradona. Lo specchio della sua vera identità, il luogo del mondo in cui la passione ha la sincerità di uno scugnizzo, la sua stessa sete di vita.

Napoli era la città più sbagliata al mondo per Maradona. La perfezione assoluta di quell’amore eccessivo, sconfinato, lo avrebbe presto o tardi soffocato di egoismo, diidolatrie, bocche di sanguisughe della privacy e dello spazio individuale

Voleva fuggire. Non glielo hanno consentito. E lui, in quel clima, con il corpo e la mente già minati dalle dipendenze, con un presidente che gli parlava a stento, è riuscito a regalare alla gente il secondo scudetto. 

Maradona era il ragazzo nato povero, nella periferia della periferia. Pensavano di poterlo comprare con i Rolex d’oro e le Ferrari. Per eccesso di amore o semplicemente per cercare di controllarlo, legandone le ali, come una preda. La camorra lo ha corteggiato per poter esibire il trofeo dei trofei. Per lanciare un messaggio: se controlliamo lui possiamo controllare tutto e tutti.

Maradona era forte ed era bambino. Entrambe le cose alla massima potenza. Il contrasto tra questi due estremi ha avuto un effetto lacerante. Nello spezzone di un documentario a lui dedicato si vede Maradona che gioca con la figlia. Ad un certo momento il suo riso è identico a quello di lei. Ha la stessa voce e gli stessi occhi del bambino che giocava a pallone sul campo polveroso di Villa Fiorito.

L’albatros vola e cammina. Ferisce le sua stessa carne. Come Ayrton Senna. Entrambi felici e disperatamente persi dentro una passione unica, assoluta, divorante. Per Senna era la velocità, per Maradona il pallone. Quello da cui da ragazzo non si staccava mai. Neppure a letto, neppure quando dormiva.

Cosa sia un “mito” non si sa. Non lo si sa definire, non se ne conoscono le cause e le manifestazioni. Ma una cosa è certa: essere un mito non è facile. Lo ha scoperto a sua spese Marilyn Monroe, se ne è reso conto suo malgrado James Dean, ed Elvis, e con loro tutti gli altri. Quelli chiamati a sperimentare sullo propria pelle e sulla propria carne il divario tra l’amore assoluto per il loro “demone”, quello che hanno reso perfetto, e la vita, quella fuori del set, dello stadio, dello studio televisivo, del teatro. La vita, come ogni donna che si sente tradita, non te lo perdona, ti avvelena. Ti strappa anzitempo dal tuo amatissimo demone e da tutti coloro che amando la tua stessa ossessione hanno amato te.

Essere un uomo, e sentire nella testa e sulle ossa la pressione di migliaia di occhi e menti. Reclamano e pretendono la tua attenzione, vogliono che realizzi il loro sogno, vogliono che tu sia quello che loro vogliono. A tutto questo, nessuno può reggere a lungo.

Maradona ad un certo momento ha sbagliato. Certo. Per l’eccesso della pressione, delle aspettative. O semplicemente ha sbagliato per un errore, umanissimo. Ma chi voleva trovare un santo o un dio su un campo di calcio ha cercato in un luogo inadeguato. 

Maradona, visto in alcune foto da bambino, avevo un sguardo da indio. Forse qualche goccia di sangue indio scorreva nelle sue vene. Così come in quelle di CarlosMonzon

Monzon sfogava il marchio di un’atavica emarginazione con pugni assestati con una forza gelida, chirurgicamente feroci. Benvenuti lo sa bene. Ne ha un ricordo indelebile.

Maradona ha avuto il dono e il privilegio di sfogare e riscattare quel marchio danzando. Sul terreno di gioco la rabbia diventava sorriso.

Life is life. Una canzone degli Opus del 1985. Il 19 aprile del 1989 sul campo di Monaco di Baviera, Maradona, con gli scarpini slacciati, danza, assieme al compagno di squadra Antonio Careca, al ritmo di quelle note. Ed è un’esuberanza spontanea che diventa simbolica in modo assolutamente naturale. Life is life, la vita è la vita. Come a dire la vita non si comprende. Non c’è niente da capire.

Monzon si è riscattato a suon di pugni. Maradona a suon di sorrisi.

Perfino nell’intervista concessa negli anni più bui ad un noto giornalista argentino, quella in cui piange, grasso, irriconoscibile, reduce dalla clinica psichiatrica, con la commozione che gli riga la faccia di lacrime, trovo il modo di sorridere. Il giornalista gli dice “Hai sempre lottato, ce la farai anche stavolta”. E lui risponde “Stavolta sono KO”. Ma perfino lì sorride. 

Magari pensava al campo. A tutto quello che gli aveva dato e che aveva avuto.

Perché il campo di calcio è uno dei rarissimi luoghi al mondo dove sussiste la possibilità del merito e della giustizia.  Immaginiamo un potentissimo presidente padre-padrone che voglia imporre a tutti i costi il proprio figlio, o il nipote o il cognato. Ordina all’allenatore di farlo giocare e l’allenatore cede. Il raccomandato scende in campo. Al primo liscio una risata collettiva. Al primo passaggio sbagliato una salva di fischi. Al terzo errore marchiano viene giù lo stadio. Su un campo di calcio non si può barare. Gioca chi sa e quasi sempre vince il migliore. Sì, almeno su un campo di calcio vince il migliore. Per questo motivo amo ancora l’idea del calcio. Non amo il calcio di oggi, i prospetti e i profili, la freddezza del cambio di maglia. Non amo la trasformazione in azienda. Mi manca la passione e la rabbia di rivalsa: Riva, Boninsegna, Domenghini e mille altri.

Il calcio è una donna che pensi di non amare più. Ma poi rivedi le foto e i video di quando era giovane, bella e folle. Rabbia e amore. Sogno e terra.

Maradona era terra. Era un uomo. La foto che dilaga su Internet, quella con i supereroi che lo omaggiano al momento della sua morte, è carina ma è fuori luogo. Maradona non è plastica e non è metallo, non è virtuale. Maradona è reale come il prato e le zolle del terreno di gioco.

Riguardiamoci, su YouTube o dove volete voi, il goal messicano, quello in cui scarta metà della squadra inglese.  Riguardiamolo, ne vale la pena. Il baricentro progressivamente si abbassa, sempre di più. Nel momento in cui segna tocca il terrenoAmplesso e morte. 

Faccia a terra. Trionfa e muore. Lo sa. Fa riflettere l’esultanza tutto sommato moderata dopo un goal del genere. Segna e cade per un istante al suolo. Ma è splendido il modo in cui punta i piedi sul prato e si rialza. Zampe di uccello rapide. Si rialza e vola. Per correre verso la sua gente. Per vedere le facce felici di quella felicità illusoria ed effimera che è tutto ciò che c’è. Ed è tanto. Per chi vive di niente. 

Maradona non era un dio. Ma sul campo danzava, accarezza e possedeva la dea amata ed amante, la terra. Il ragazzo nato nella periferia polverosa ha trasformato lapolvere e il fango nella magia della bellezza. 

Ha pagato. Tranquilli, moralisti ipocriti. Ha ampiamente pagato. Con gli interessi, per tutte le sue colpe. 

Messi è grande. Messi lascia a bocca aperta. Maradona lasciava a bocca aperta e spesso ci faceva sentire coglioni perché ci si commuoveva quando giocava. Perché ci faceva sentire contenti in un luogo dentro che resiste alla tempo e alla ragione. Ci faceva sentire contenti di una malinconia che diventa allegria. Tutte e due le cose insieme, come in un tango di GardelMaradona era intelligente. Era sveglio. Un dono e una pena. Capire tutto il bene del male e tutto il male del bene è un fardello che sarebbe bello non dovere portare.

Mia madre ha sempre preferito Pelé. Mia madre è la saggezza. Razionalmente, ha ragione lei. Ma la ragione non sempre ha ragione. Mia madre si occupa di calcio una volta ogni morte di papa. O di re. Prima della morte di Maradona mia madre si era interessata di calcio nell’ottantadue. Ai Mondiali di Spagna.

Ricordo il fallo di Scirea, giocatore agli antipodi di Maradona, eppure anche lui lontano dagli schemi, diverso, solitario. Maradona sfugge alla marcatura di Gentile. Tra lui e la porta di Zoff c’è solo Scirea. Due mondi a confronto. Il fallo con cui Scirea lo ferma arriva all’altezza dei fianchi, del bacino. Nessuna protesta di Maradona. Nessuna ammonizione. Non si tradiscono gli amici e neppure gli avversari. Non sul campo di calcio. Non dove c’è un pallone. Non dove si può danzare.

Ci sarebbe tanto ancora da scrivere. 

Ma forse è meglio andare a rivedere le immagini di una sua finta, di un suo goal. 

In questo pezzo forse ho scritto cose sbagliate. Chissà. Un errore l’ho fatto di sicuro. Ho scritto “Maradona era. In realtà Maradona è. Perché resta la parte di lui in cui ognuno si è riconosciuto. Quel bambino con un pallone tra i piedi che trasforma il dolore in un sorriso e la miseria del mondo in bellezza.

Per il tempo di un volo, di un lampo. Certo. Per il tempo di un volo. E il volo è sempre rapido, effimero, contrastato dalla legge di gravità. È una cosa da poco. Di breve durata. Come la vita. Life is life. 

Rispondi