SPAZI METRICI / “E sia” di Grazia Procino

E sia, vera e sacra la diversità del sentire, del voler attingere al significato intimo dell’umano agire. E sia, voglia di affrancare, ristorare, rinunciando all’umana entropia che ci rende complici di nascondere sotto il tappeto ciò che vediamo. “E sia”, la raccolta poetica di Grazia Procino (edita da Giuliano Ladolfi Editore) si apre con una dichiarazione d’intenti, una carta d’identità, che è già mondo nei mondi:

«Non mi ha mai sfiorata
il desiderio di essere come tutti
io papavero ai bordi
di un asfalto al catrame».

E a tratto di diversità sembra proseguire, nell’immedesimazione di un umano che appartiene senza appartenere, che sente come un Odisseo «uomo che sa piangere». È scoperta a ogni componimento con la poetessa. La Procino ci sorprende in un procedere sempre pieno, dove l’utilizzo dell’immagine mitologica si confonde con quella quotidiana, di un «caffè che viene / in tavola fumante», ma «nel freddo polare del tempo», che ci porta a non accettare «più doni dagli sconosciuti / pur benefattori».

Il “ritmo” (se così lo si vuole definire, attribuendo tradizionalmente al verso la semantica del canto) di una silloge è naturalmente e comunemente in battere e levare. Quello della poetessa è un continuo battere, sui sensi, sugli interrogativi. Non ci sono mai tempi morti, se è vero che anche le pause danno il senso e l’armonia di una voce. Il che sembra quasi innaturale, ma è senza dubbio un pregio che accogliamo con gusto, assaporando ogni simbolo di inchiostro impresso sulla carta limpida della poetessa.

E poi la capacità di saper raccontare di sé (inteso non nel senso soggettivo, ma dell’intima interpretazione del sentire) tipico della lirica – un sé che diventa linguaggio universale – a quella di trasferirsi in un altrove, con la capacità di farlo trascendendo il banale, il buonismo, il perbenismo. Come quando la Procino ci porta in una campagna pugliese, ad ascoltare l’abisso dei pensieri di una raccoglitrice di pomodori:

«Impazzire di fatica è umano?
Chiedo a chi guarda dall’altra parte
E non vuole vedere
Se Dio sopravvive
non è certamente qui».

E un certo alone di solitudine aleggia nell’incapacità di essere capiti nel proprio intento di comprensione, «Ho capito che la tua felicità / può procurare nell’altro dolore, / non puoi farci niente».

«Dammi parole che non
si fanno scordare – dicevo un anno fa.
Fitte tessiture verbali ingorde
davano ampia soddisfazione
non c’erano margini di vuoto», scrive la poetessa. Per quanta delicata grazia si intraveda nel dire della Procino, sembra di sentirne le viscere, che si palesano sulla parola, ricordandoci la caduta dei versi della Marina Cvetaeva, alla ricerca di parole capaci di incantare.

È sempre in agguato, nel dire poetico, il pericolo di passare da una lirica astrusa chiusa in se stessa (e come tale incapace di arrivare), a un gesto vocale intriso di eccesso di semplicità, che invece la disperde. La Procino, invece, è in perfetto equilibrio con la sua voce, che ci arriva di buona grazia. Allora, e sia. Sia la voce della Procino la culla in cui sentirsi protetti e grati alla poesia, che perfettamente incarna e rappresenta.

Felicia Buonomo

Grazia Procino

Il mio temporale

Ha piovuto tanto oggi
dalla finestra aperta è entrato
un profumo che mi ha riempito
le narici di un sollievo subitaneo
come se per la prima volta mi
trovassi dentro al temporale e,
poi, alla sua fine.

Aspettavo impaziente prima lo scrosciare
impetuoso dell’acqua – il cielo scuro,
vivido presagio – l’ombra che
incontra l’altro
poi il gatto che passeggia
sul selciato sveglio dopo la pioggia.

Ho pensato durante il rovescio
al disfarsi dell’universo
al ritorno del caos cupo all’eco
struggente delle Sirene al dovere
infine, di salvare me stessa. 

Da “E sia” – Giuliano Ladolfi Editore

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