VEDERE CHE NON CI SEI PIÙ, NON DIRE NIENTE. IN MEMORIA DI MARIO BENEDETTI

 

   (ph_ Dino Ignani)

 

Mario Benedetti se n’è andato ieri mattina. Se n’è andato come ha sempre vissuto: in silenzio, senza clamore. Uno dei poeti più significativi e originali della nostra storia recente se n’è andato così: in un venerdì mattina qualunque di fine marzo; un venerdì funestato da altre centinaia di morti, meno celebri forse, ma non per questo meno dolorose.

Da diversi anni, la parola di Mario Benedetti era stata messa a tacere dalla malattia e di lui si avevano poche sporadiche notizie. Eppure la forza della sua poesia, quella no, quella non era stata messa a tacere. Anzi. La forza della sua poesia non era venuta mai meno. Mario era diventato negli anni un punto di riferimento costante per le nuove generazioni e la sua poetica, sempre rigorosamente sospesa tra l’asprezza dei luoghi e la condanna del tempo, continuava ad alimentare il dibattito critico.

Anche per queste ragioni, nel 2017 Garzanti decideva di dare alle stampe nella collana I grandi, il volume Tutte le poesie. Un’operazione importante che per la prima volta raccoglieva in un unico libro, buona parte dell’opera poetica di Benedetti, da Umana gloria (2004) a Pitture nere su carta (2008), Tersa morte (2013) e Questo inizio di noi (2015). La raccolta, affidata alla curatela di Stefano Dal Bianco, Antonio Riccardi e Gian Mario Villalta, incontrava immediatamente la gioia e il favore di quanti, come la sottoscritta, consideravano Benedetti un poeta di cui era necessario continuare a parlare nonostante l’isolamento in cui la malattia lo aveva dolorosamente confinato. Un grande poeta ma, anche (e non è scontato si realizzi), una grande persona. E se è vero, com’è vero, che un uomo è, anche e necessariamente, la sua biografia; questa equazione doveva – e deve – valere a maggior ragione per un uomo/poeta che paga con i suoi versi la vita vissuta.  Un uomo/poeta come Benedetti, in particolare, dove l’essere fedeli alla realtà è sempre stata una condizione imprescindibile, come ricorda Riccardi in prefazione al volume Garzanti.

E lo ricorda anche Dal Bianco nel suo intervento, il legame tra poesia e biografia in Benedetti è fortissimo in quanto componente del suo, e nostro, esistenzialismo di fondo. Il testo è legato alla persona che l’ha scritto non in quanto individuo “storico” ma proprio in quanto essere umano a-storico antropologico. Non è un caso dunque che la sua scrittura, in un certo senso umile e antiretorica, ma molto concentrata, sia cresciuta seguendo sempre una tenace fedeltà alle cose, soprattutto le più comuni e dimesse, quelle che entrano a far parte dell’esperienza di un individuo nel tempo che gli è dato in sorte (così, sempre Riccardi). Quelle comuni e dimesse cose che a Benedetti sono sempre state vicine e con lui non hanno mai smesso di intessere un fitto dialogo.

Da altra prospettiva, ha ragione Villata quando afferma che occorre accostarsi a questa poesia con tutta la libertà necessaria per non avere la fretta di comprendere per giudicare. La pagina che rapisce il lettore nel luogo impossibile, ma vero, di un tempo assoluto, dove l’infanzia e la storia condividono una stessa lingua, e la pagina che respinge per la resistenza delle immagini, per il buio che sorge dai segni, sono frutto della medesima chiamata, di uno stesso intero esporsi nella molteplicità, nella dispersione, e però nell’unico senso delle parole che nella poesia attraversano la verità.

Tra le tante forme di verità e realtà praticabili, Mario Benedetti aveva scelto quella dell’attenzione ovvero del difficoltoso e sofferente ascolto della propria necessità interiore. Necessità interiore che non si era mai piegata però a uno sterile dato autobiografico ma si era al contrario accordata, intimamente, a quella altrui divenendo un concerto vivo di voci. E all’appuntamento con quell’ascolto e quell’attenzione, Mario, non si era mai fatto trovare impreparato. Aveva inventato una sua lingua, un suo preciso, rigoroso modo di intelligere il mondo. E restano, fino alle fine, le meravigliose incongruenze della lingua di Mario – scrive Dal Bianco (sempre in prefazione al volume Garzanti) – le sue metonimie spiazzanti, la temerarietà delle sue tautologie. Ogni poeta inventa, o cerca di inventare, una propria lingua. Pochi ci riescono. Molti si accontentano di essere (nel migliore dei casi) epigoni e portavoce di quelli che sono venuti prima e così la lingua, lungi dal diventare strumento e luogo di incontro e memoria, finisce per essere un fantasma vuoto in un presente vacuo. La lingua inventata da Benedetti ha finito invece, proprio per la sua fluidità e originalità, per assumere un valore testimoniale e quella sua voce – rotta, sofferente ma mai vinta – si è accordata a quel valore diventandone a sua volta una testimonianza ulteriore. E questo fino alla fine, fino all’ultimo dei suoi giorni mancati. Fino all’ultimo dei suoi giorni mancati bruciati troppo in fretta.

 

da UMANA GLORIA

*

È stato un grande sogno vivere
e vero sempre, doloroso e di gioia.
Sono venuti per il nostro riso,
per il pianto contro il tavolo e contro il lavoro nel campo.
Sono venuti per guardarci, ecco la meraviglia:
quello è un uomo, quelli sono tutti degli uomini.
Era l’ago per le sporte di paglia l’occhio limpido,
il ginocchio che premeva sull’erba
nella stampa con il bambino disegnato chiaro in un bel giorno,
il babbo morto, liscio e chiaro
come una piastrella pulita, come la mela nella guantiera.
Era arrivato un povero dalle sponde dei boschi e dietro del cielo
con le storie dei poveri che venivano sulle panche,
e io lo guardavo come potrebbero essere questi palazzi
con addosso i muri strappati delle case che non ci sono.

*

Nelle finestre i giorni.
Si animano pochi visi,
venuti senza chiedere mai perché ne ho bisogno.
Dove comincio anch’io. Dove finisco
È una lunga luna, il grande nero delle montagne.

Mi sembrava una notte con la neve oggi
la piccola spesa, i pochi soldi, la tua piccola felicità.
E anch’io ho visto le montagne, mamma, non sempre.
Ma ho visto le tue montagne.
I sassi rotolano giù, basta non gridare.

 

Una donna e il suo bambino

Ho le mani che mi tengono alla ringhiera,
così come sono vestita, come in una fotografia
che si passa tra le mani
e viene fuori qualcuno che ancora può vivere tanto.

Ho le mani vedi, come spiegarmi, il polsino
come una pelle con le righe che vengono fuori.

Ho uno sguardo di cose a cui piace stare lì un poco.
Lo zucchero, i piatti e la promessa di tutto questo
quando qualcuno ride e c’è il cortile,
o piange, e tu gli parli, gli racconti in casa.

 

A D.

Penso a come dire questa fragilità che è guardarti,
stare insieme a cose come bottoni o spille,
come le tue dita, i tuoi capelli lunghi marrone.
Ma d’aria siamo quasi, in tutte le stanze
dove ci fermiamo davanti a noi un momento
con la paura che ci ha assottigliati in un sorriso,
dopo la paura in ogni mano, o braccio, passo,
che ogni mano, o braccio, passo non ci siano.

 

da PITTURE NERE SU CARTA 

Colori 7

«Sei solo mani, a volte,
annodate a una parte tesa della mia pelle.

Solo bocca, aperta al sorriso,
aperta dove non mi vedi piangere o sorridere,

nel tremito forte dove ascolti forse
una musica sognata insieme»

 

Colori 10 

                                                        madre

E dalle tue foglie viene la vita,
dalle foglie vedute dal muro che guardi.

E niente è qui di quello stasera.
Oh gli anni che hai e che ho.

Lunga non è la mia vita, quanto la tua.

Quello che resta, dopo aver parlato, c’è.
Non qualcuno. Che alberi erano quelli,

mano e nervature, morbide, fresche.
Dove sei? fondo di casa, fermo e vagolante,

nel colore bianco della sera a dicembre.

 

Lacrime 3

Tutto sembra visto, le parole
nei volti. In quello che è stato,

che torna, comune, che è
la vita, disinvolta. E gli anni
a capo, che seguitano, vedi,

posso andare, nel non volto, e non
piango per questo, oh per questo

non ci sono labbra da toccare.
Non ho gesti, emozione, cosa

È una veste rossa, gialla.

 

Sacrifici 1

Pietà. La tremenda distanza.
Perché non piove, perché ci sia il cibo.

Mi salverò ancora, assassinandoti.

Per bere il tuo sangue, per bere il mio sangue.

Che tutto sia per la fine.

 

da TERSA MORTE

                                                  25 agosto 2010

Le parole sono quelle nelle storie che mi hai fatto vedere.
Quanto non è mai visto e quanto non si dice oggi!
Va avanti fidandosi il corpo cieco e obbligato a stare.

La tua mano non cerca i funghi.
La tua mano si è chiusa gli occhi con i cerotti.
Lo vedi? Cosa si può fare?

 

                                               1 ottobre 2011

Le parole non sono per chi non c’è più.
Si commuovono e possono dire il viso morto.
Gli occhi erano quelli che mostrava,
il vestito sepolto quello visto altre volte.
Vedere che non ci sei più, non dire niente.

*

Mandami le ossa, mandami il cranio senza gli occhi,
la mascella aperta, spalancata, fissa nei denti,
e i calzini sotto la tuta, eri rigido, eri rigido, eri una cosa
come un’altra, senza la forma che hanno i tavoli,
morso dallo stento del vivere, una cosa inservibile,
indecisa, un terriccio che non si nota, un pezzo di asfalto
di una strada anonima, eri tu, quella cosa, eri tu,
quella cosa, eri uno che è morto. Così fragile il tuo sorriso,
lo sguardo blu e gli zigomi, il metro e settantacinque
portato come un uomo che piace, che vive per sempre,
per sempre dentro una vita che per potere essere
vissuta deve sembrare una vita per sempre, mentre eri
della carne, quello che io sono uno per sempre ancora.

*                         

                                       Quel nulla che noi non saremo
                                          porta con sè e cancella tutto

Devo tenerlo per mano,
non vedo nessuno tenere per mano i bambini.
Vicino alla manica lunga del braccio
i suoi occhi liberi, e tante madri,
tanti cuccioli di cagne e mucche insieme ai vitelli
che dormono come i bambini.
Ora escono dai muri delle case, entrano
nella mano senza dolore.
Sono entrati nella mano come un suo osso.
Le madri sono così sole con i loro bambini.
I figli hanno solamente le nostre ossa.
Ma io nella mia vita non ho scritto nessuna poesia,
io nella mia vita non ho letto nessuna poesia.
E questa nessuno l’ha scritta, nessuno l’ha letta.

 

da QUESTO INIZIO DI NOI

 *

Vive nei brividi del porfido,
va sotto i muri delle case,
si apre alle campagna, la pioggia.
Piove, e quale fiume sarà,
una mare qualunque. Nessuno,
Annina, Rjelka, Agostino,
nessuno. E qui soltanto piove.

*

Ma tu lo sai che c’era?
Siamo nati insieme, lui alla porta vicina.
Se un giorno non lo avessi visto?
In qualche modo ci sarebbe stato.
Se il posto fossero altri visi
con le loro facce, con la loro morte?
È finita. Si resta a guardare,
le parole scorrono insieme alle dita.
Non devi più alzarti da te.
Tanti passi, tanti sguardi, altri cieli.
La tua vita, nessun commento.

 

Dedica

Allora, il tempo della vita dopo. Allora.
Eri lì o una di queste sere. Ma ci vuole affetto
per parlare, dell’affetto per scrivere.

Cose fuori pagina, che si vivono e basta.
Pensieri. E comunque, stai bene? Hai
studiato? Come passano gli anni,

vedi, come passano gli anni,
e i tuoi sono ancora pochi. E il volere
che non si parli più, non si scriva più

per andare a capo. Una sola voce lontana…,
quando non sarò presente a me…
Solo offuscati….e piano piano andarcene.

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