Low. Una trilogia di Gherardo Bortolotti

L’infra-ordinario secondo Gherardo Bortolotti, in libreria con “Low. Una trilogia”

 

di Felicia Buonomo

 

Lavorare sulle immagini, evocare scenari, moti interiori o dettagli ignorati, ma che aderiscono alle pareti dei pensieri; grattando in alcuni casi, ovattando la percezione di sé stessi e del circostante, in altri. È questo il modo in cui Gherardo Bortolotti, poeta, prosatore – difficile e forse inappropriato incanalarlo in una cornice definitoria – sembra lavorare con i suoi testi. Oggi offre a noi lettori il privilegio di poter attraversare quelle atmosfere di marginalità, che si fanno sostanza centrale, con “Low. Una trilogia”, edito da Tic Edizioni, in cui ritroviamo: Tecniche di basso livello (pubblicato da Lavieri Edizioni nel 2009), Senza paragone (Transeuropa, 2013), Quando arrivarono gli alieni (Benway Series, 2016).

Con “Tecniche di basso livello”, Bortolotti ci conduce – magistralmente –  a soffermarci sulla profondità semantica di gesti quotidiani, che spesso si compiono senza peso o consapevolezza, ma che parlano di qualcosa che ci appartiene, in una dimensione che esula dal gesto in sé, ma parla al sé che siamo o vorremmo essere. L’uso della terza persona singolare o della prima plurale, il ricorrere alla presenza di un “io” esterno, sembra essere scelta mirata, che diventa moto di conoscenza centripeta, come quando «cercava rifugio dal freddo negli abissi tiepidi delle sue tasche, trasferendo tutta la presenza nelle dita, nelle carte di caramelle, negli scontrini appallottolati».

In “Senza paragone” è, crediamo, vincente l’idea che struttura il lavoro editoriale, questa scelta di un paragone – di difformità o analogia – continuo, che si sposa, pur scontrandosi, con il titolo del testo nel suo complesso. Le immagini sono piccoli granelli in un occhio mai pronto ad accogliere corpi estranei. Ma il risultato di questo ingresso non è il fastidio rappresentato dal lacrimare, è il rimando al senso delle cose ignorate. Si pensi a immagini come «si aprono i volumi di aria vuota che ti separano dalla scrivania opposta, dal tuo collega, dalle sue opinioni circa la possibilità che la gioia duri», o «come le sottigliezze dei tuoi ragionamenti inutili […] per accedere alle regioni interne del reale».

E infine “Quando arrivarono gli alieni” (che peraltro l’autore dedica a un altro importante e stimabile poeta/prosatore, quale è Andrea Raos), che ha il pregio di farci ritrovare il Bortolotti che si è già imparato ad amare nelle pagine precedenti. Che sembra farsi portavoce di un certo ordine di pensiero, forse di una generazione o di periodi storici che si susseguono, variano e si ripetono, rinnovandosi. Anche qui il quotidiano diventa la forza per portare il lettore dal circostante al centro dell’io, dove «gli alieni si erano mossi sull’onda di una catastrofe, di qualche forma di pandemia, di conflitto globale […] lungo le rotte dentro la Via Lattea […]».

 

Abbiamo fatto qualche domanda all’autore, per capire il modo in cui ha lavorato a questo nuovo testo che racchiude parte della sua produzione letteraria.

 

Gherardo Bortolotti

Come nasce l’idea – o la necessità – di una trilogia?

«Nasce dalla volontà di chiudere la prima parte del mio lavoro. I testi che compongono la trilogia mi sembrano avere una loro coerenza, sia come ispirazione, che come tono. Sono testi dove ho esplorato le dimensioni della scrittura della prosa breve, attorno ai temi dell’infra-ordinario, dei livelli di realtà che in genere non percepiamo, ma che comunque sono determinanti ed effettivi della nostra vita quotidiana e anche del nostro senso della vita».

Perché questo titolo, Low?

«L’idea è stata del direttore di collana, Michele Zaffarano, che ho sposato subito. Low è un disco di David Bowie, il cui tono trovo adatto ai quei tre testi. Low, peraltro, viene anche citato in un testo».

Perché proprio questi tre testi?

«Perché sono parte di un lavoro preciso, ovvero l’esplorazione delle nostre giornate, cercando di far emergere quello che in genere rimuoviamo perché  sullo sfondo, perché è nella filigrana. E anche perché mi ero convinto che non avrei scritto più niente, mi sembrava di aver completato il lavoro che mi toccava. Poi ho scoperto che c’era una dimensione che non avevo mai toccato, da cui è nato “Storie del pavimento” (Tic Edizioni, 2018, ndr).

Ha rivisto e modificato i testi originari per questa nuova pubblicazione?

«Gli interventi non sono stati particolarmente significativi. Ho fatto interventi su alcuni passi di “Senza paragone”, perché questo testo cercava di lavorare, tra le altre cose, sulla forma delle strutture sintattiche interrotte o incomplete; semplicemente ho acuito questo aspetto. Sono intervenuto invece in un modo apparentemente secondario, ma secondo me essenziale, sulle numerazioni. Sia “Senza Paragone” che “Quando arrivarono gli alieni”, lavoravano sulla numerazione continua, che ho tolto, rimettendo, come in “Tecniche di basso livello”, la numerazione casuale. Uno degli elementi di questo lavoro è di creare degli ordini, ma che siano coerenti. Appare una contraddizione, ma in realtà ha una sua necessità».

 

Felicia Buonomo

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