CONSONANZE E DISSONANZE / La morte come anche Larry Flint: “Ritorno alla natura” (LietoColle, 2019) di Faruk Šehić

(Riprende, dopo una pausa più lunga del previsto, la rubrica “Consonanze e dissonanze”, dedicata alle più diverse note – consonanti, appunto, o dissonanti – di lettura dedicate alla poesia contemporanea, italiana e in traduzione.)

 

Il canone, o quel che ne resta, è spesso utilizzato per criticare aspramente le esperienze di poesia percepite come aliene. Epigoni di Penna o Quasimodo quelli, di Sanguineti o Balestrini quegli altri… Fatta salva, in ogni caso, la vitale distinzione tra l’epigonismo e la conservazione ortodossa della tradizione, che non può, in fin dei conti, fare a meno né di quel Novecento né di quell’altro.

In questo gioco di reciproci infingimenti e ipocrisie, quel che sembra certo è che la poesia canonica “non si può rifare” e nemmeno citare impunemente, nella poesia italiana di oggi; stupisce, allora, e spinge a riconsiderare l’intera questione una poesia come quella di Faruk Šehić, che senza indugio cita, all’interno di Ritorno alla natura (LietoColle, 2019, traduzione di Ginevra Pugliese e postfazione di Giovanna Frene), I fiumi di Giuseppe Ungaretti, Le dormeur du val di Arthur Rimbaud e il verso forse più noto di T.S. Eliot (“April is the cruellest month…”).

Tra queste, si può forse considerare inevitabile la ripresa ungarettiana, per il parallelo processo di avvicinamento metaforico della guerra civile jugoslava alla Grande Guerra; questo, però, presuppone una paradossale libertà – trasposta esclusivamente sul piano letterario, come “libertà di citazione” – che si esaurisce completamente nel segno del trauma storico. Šehić, del resto, si è arruolato nell’Esercito della Bosnia Erzegovina nel 1992, restando ferito gravemente a un piede nel conflitto: l’esperienza della guerra civile è al centro delle sue opere, come si notare leggendo Il mio fiume (Premio Selimovic nel 2012 e Premio dell’Unione Europea per la Letteratura nel 2013, tradotto per Mimesis nel 2017).

Il fiume di Šehić, però, non è né la Drina di Ivo Andrić, né la Miljacka di Abdulah Sidran – altro, forse più omerico, cantore della guerra civile, di stanza a Sarajevo nei giorni dell’assedio. Il fiume in questione è l’Una – non a caso, un fiume di confine, oggi, tra Bosnia-Erzegovina e Croazia – ed è anche il protagonista di una poesia che si chiude con una strofa che sintetizza al meglio la posizione politica ed esistenziale assunta dal poeta dopo il conflitto: “è il mio fiume / la mia stella terrestre / non così famosa come il Guadalquivir / ma comunque scorre attraverso il mio cuore / giustificando perfettamente il suo nome” (p. 23).

Canone letterario, riferimenti culturali e storici molto vasti, dunque, ma anche, forse soprattutto, un fiume che completa il Ritorno alla natura che dà il titolo all’opera, “facendo della scrittura”, come osserva altrettanto brillantemente Giovanna Frene, nella sua postfazione, “il terreno della dialettica tra immortalità della natura e mortalità dell’uomo” (p. 118).

Certo, la consonanza dell’opera di Šehić con quella di Frene – almeno, tra gli altri, con Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda (Arcipelago Itaca, 2015) – risulta piuttosto evidente; di nuovo, però, non è sul terreno “letterario”, nel senso comune e forse parzialmente deteriore del termine, che si gioca la grandezza della scrittura di Šehić (e della traduzione di Pugliese, insignita, nel 2019, del XXXI Premio Camaiore Internazionale – Francesco Belluomini). Šehić è altresì capace di introdurre senza soluzione di continuità riferimenti postmoderni (tra tutti, scelgo questo: “la morte come anche Larry Flint / ama immagini bizzarre”, p. 79) nel suo ritorno alla natura che certo non si può dire idillio e nemmeno compiuta e consolante elaborazione del lutto. Il ritorno, piuttosto, è scoperta di un vivere “al di là di tutto”, per citare il verso iniziale di un testo che si intitola, significativamente e con scarto ironico, la salvezza, poiché questo vivere – comune nelle terre di là e di qua dall’Adriatico, nonostante la nostra storia amaramente lacunosa, se non anche delittuosa, nei confronti di quel conflitto e delle sue sequele – è “questo confrontarsi con il mondo / landa desolata / dove dio singhiozza chino su se stesso / e non c’è posto per la vita dell’uomo / Cristo è un manichino redditizio / e gli usignoli vengono arrostiti sulle griglie del McDonald’s” (p. 73).

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