Clan Off: “Come un granello di sabbia”- di Salvatore Arena e Massimo Barilla

di Marta Cutugno

La consapevolezza della mia innocenza”. Alla domanda su cosa lo abbia spinto ad andare avanti ha risposto così Giuseppe Gulotta in collegamento Skype al Clan Off Teatro sabato scorso, 8 febbraio, poco prima della rappresentazione di “Come un granello di sabbia”, scritto e diretto da Salvatore Arena e Massimo Barilla, una produzione Mana Chuma Teatro. Lo spettacolo, che è vincitore del Premio dell’Associazione Nazionale Critici Teatro 2019 e del Premio Selezione In-Box 2016, ha raggiunto, anche grazie alla rete Latitudini, quota 70 repliche nazionali ed è stato recentemente rappresentato anche a Colonia, a Malta ed a Parigi. Andare a teatro per respirare un battito di vita che, anche se indiretto, mette sempre in gioco la sensibilità di ciascuno per annullare le distanze tra spettatore e personaggio, ha espresso questa volta tutto un altro orizzonte. Il pensiero di Gulotta, sentitamente commosso dall’altro lato del video, è andato alla sua famiglia, al supporto ricevuto dai suoi cari, all’impegno investito nel lavoro, alla fede. “Sono un granello, Signor Giudice, un piccolo granello di sabbia rimasto lì, nell’ingranaggio”. È la storia di un uomo, un piccolo granello di quella sabbia, uno di quelli che “arriva avanti agli occhi e non fa vedere più niente”: Gulotta, un ex muratore di Certaldo che nel lontano ‘76 venne arrestato con l’accusa di duplice omicidio e che ha scontato ventidue anni di carcere. A Salvatore Arena, il compito di trasferire con la sua forte interpretazione, lo smarrimento ed i tormenti di un innocente. All’epoca dei fatti Gulotta era solo un diciottenne nel fiore degli anni che, immerso nelle scene essenziali ma strutturate di Aldo Zucco ed avvolto nel disegno luci incisivo di Stefano Barbagallo, Salvatore Arena restituisce nella sua spensieratezza di ragazzo tra gli amici, con la sua vespa e le candeline sopra la torta di compleanno.

Ma se respirare equivale a vivere, è proprio l’affanno, un vociare di sospiri silenziosi che accompagna i primi passi del protagonista. La scena si colma d’aria, primo elemento scenografico, tanto imponente quanto invisibile, “aria che afferri, che perdi, che lasci andare”. L’aria che il carcere rinchiude e lascia fuori al tempo stesso. Nell’interpretazione straordinaria e toccante di Salvatore Arena c’è tutto il desiderio di respirare ancora ma a materializzarsi è, anche e soprattutto, quel senso di sofferta estraneità della vittima, che con distacco guarda alla sua condizione come se si trattasse di altri, perché inaccettabile o semplicemente per renderla più sopportabile. A diciotto anni, Giuseppe Gulotta, giovane muratore con una vita come tante, viene arrestato e costretto a confessare l’omicidio di Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, due carabinieri in servizio in una piccola stazione di Alcamo Marina, in provincia di Trapani. Il tremendo delitto compiuto durante il sonno dei due agenti aveva bisogno di altre vittime innocenti, capri espiatori da accusare per coprire le miserie e le collusioni di uomini di Stato immischiati in traffico di armi e di droga. Una vicenda contorta e nebbiosa su cui anche Peppino Impastato, pare, abbia indagato. Attraverso la drammaturgia di Arena e Barilla, con la consulenza storica di Giuseppe Gulotta e Nicola Biondo, autori del libro “Alkamar – la mia vita in carcere da innocente” edito da Chiarelettere, quei ventidue anni di carcere ingiusto investono lo spettatore con l’efferatezza di un pugno, per  ricordarci che la verità può non essere assoluta. In questo spettacolo, vengono mantenuti a gran voce il dignitoso rigore e la sensibile misura che Mana Chuma Teatro riserva di consueto alle sue produzioni teatrali, esercitando la responsabilità di non lasciare silenziate vicende come questa.  Le urla e le torture prima di una confessione estorta sono incipit di un dramma personale durato decenni a cui fanno da colonna sonora le musiche originali di Luigi Polimeni. La partitura dello spettacolo culmina nell’audio della sentenza che rompe finalmente il buio assordante dell’ingiustizia. Dopo dieci dolorosi processi, nel marzo 2012, Giuseppe Gulotta è stato assolto dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria che, dopo la ricostruzione dei fatti, è riuscita a stabilire l’estorsione della confessione da parte dei militari dell’Arma dei Carabinieri, tramite sevizie e torture. Uno dei casi più eclatanti, se non il più grave, di errore giudiziario in Italia. Interminabili applausi per l’interprete che lascia al pubblico il più grande degli interrogativi: “mi chiedo … quanti come me aspettano senza avere voce?”

 

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