CONSONANZE E DISSONANZE / Sulla leggibilità del font: “Caratteri” (Vydia, 2018) di Francesco Terzago

Se convenzionalmente inteso, non è certo un problema di leggibilità a nascere dalla lettura dei Caratteri (Vydia, 2018) di Francesco Terzago. D’altronde, risale a più di otto anni fa un intervento di Francesco Terzago (firmato a otto mani insieme a me, a Guido Mattia Gallerani e a Matteo Fantuzzi) su Nazione Indiana, intitolato Pubblico e poeti: una svolta civile?, nel quale si leggeva: Ci dovrebbe essere poesia come si deve. Ma non poesia come si deve per me, per chi cerca di leggere un libro di poesia a settimana e ha studiato Lettere, poesia come si deve sia per uno che ha competenze di questo genere, sia per uno che queste non le ha proprio, poesia che sia in grado di farsi volere bene – la poesia come il Grande Cinema: dove creatività e competenze danno un prodotto qualitativamente raffinato ma allo stesso tempo di libero accesso, per tutti. Sì, voglio i Cameron e di Ridley Scott della poesia, voglio una nuova epica italiana per la poesia. Se vogliamo fare poesia per la gente, e se siamo davvero comunicatori competenti, non ci si deve accorgere leggendo i nostri lavori, di uno scollamento tra il mondo intellettuale e il mondo reale – perché il sapere deve essere al servizio della vita e non viceversa. In pratica, come scriveva Cartesio: “e avendo deciso di non cercare altra scienza se non quella che potevo trovare in me stesso oppure nel gran libro del mondo”.

Ripercorrendo l’intervento a distanza di anni, non sono pochi i passaggi e le argomentazioni che, a mio avviso, si potrebbero rivedere – preoccupazione che forse condivido, almeno in parte, con gli altri estensori del documento. In ogni caso, giustapponendo l’articolo e il libro di Terzago, se ne ottiene un’attenzione verso la “comunicazione competente” che l’autore – anche in virtù della sua esperienza professionale – non smentisce mai, nel corso del libro.

Tramonta, invece, l’idea di poesia come Grande Cinema, e con essa quella di una “nuova epica italiana”, o NIE, che dall’originale formulazione ad opera del collettivo Wu Ming – oggi, a dire il vero, caduta un po’ in disuso – si possa traslare in poesia. Nella poesia di Terzago, dove i Caratteri sono anche characters, o personaggi (ma più di un romanzo post-postmoderno che non di altro) l’immaginario cinematografico o neoepico, se presente, è sempre oggetto di un amaro understatement: Lui fa il barista dai cinesi, / io lavoro in un parco divertimenti, sono cowboy (p. 22).

Quel che resta di tali progetti, semmai, è un’ampia fruibilità della narrazione: come ha scritto Cristian Sinicco in un recente intervento sul libro, quello di Terzago è “un parlato a tratti disarticolato, surreale, ma sempre ben orientato”; al tempo stesso, però, si tratta di una narrazione in qualche modo estranea a molte delle linee di poetica che continuano – più tenacemente di quel che si vorrebbe pensare – ad esistere, almeno a livello indicale.

Si sofferma su questo punto anche il prefatore Gian Mario Villalta, all’interno, tuttavia, di un paragrafo che con ogni probabilità vuol dire, in primo luogo, altro: Per questo motivo, è difficile, per chi è abituato a leggere la poesia in termini di “trasmissione”, orientarsi a una prima lettura, individuando che cosa è stato trasmesso e cosa no (p. 12). Villalta mira forse alle idiosincrasie di una nidiata poetica, così come l’ha ricordata poco prima (Come molti della sua generazione, Terzago ha guardato poco alla tradizione dei padri (e degli zii)… p. 12), che ha voluto, tra le altre cose, instaurare un confronto, perlopiù agonistico, con i padri – meno compiutamente con i zii e, soprattutto, con le zie e le madri – come quella de La generazione entrante. Poeti nati negli anni Ottanta (2011). In quell’antologia, curata da Matteo Fantuzzi e Giuliano Ladolfi, si può ritrovare anche una silloge di Terzago, parzialmente ripresa anche nel libro: Caratteri raccoglie, infatti, dieci anni di scrittura dell’autore, dal 2006 al 2016.

Ma non è questo il punto, colto in pieno e comunque sfuggente. (E ci si passi anche il termine di “nidiata”, da intendersi come provocazione e passaggio euristico verso una ridefinizione, a tutt’oggi ancora necessaria, nello sfaldarsi delle storie letterarie e della critica poetica, dell’idea di “generazione poetica”…)

La scarsa indicalità della scrittura di Terzago non lo apparenta in modo esplicito e stabile alla poesia post-lirica o alla scrittura di ricerca, e nemmeno a quella declinazione performativa cui Terzago guarda con la sua attività ‘mitilante’. Vi sono, tuttavia, alcune analogie con scritture poetiche egualmente narrative come quelle di Luca Ariano, Carmine de Falco e Francesco Targhetta, e per il tramite di questi nomi, forse, si può più agilmente rintracciare un percorso nella tradizione poetica del Novecento. A questo itinerario si possono poi aggiungere anche gli autori che, in una poesia di Caratteri, sono inclusi nel ricordo di una biblioteca del passato: le copertine avevano fatto tante bolle, e Brodskij / e Giovan Battista Marino e Coleridge / erano ridotti a strisce di inchiostro violaceo… (p. 49). Tra questi, infatti, si possono sottolineare i nomi dei novecenteschi Iosif Brodskij e Attilio Bertolucci, utili per consolidare qualche coordinata. Questa stessa biblioteca, però, è avvinta dal muschio e forse non è questa la strada da perseguire, per rispondere al rovello suggerito dal prefatore.

Occorrerà, piuttosto, sottolineare come nei dieci anni di poesia dei Caratteri la tensione sia ancora viva e irrisolta: da un lato, vi è un testo, significativamente intitolato Eredità, nel quale si legge, ad esempio: bevevamo, senza rimorso, la vodka rubata ai nostri padri (p. 37); d’altra parte, il testo incipitario, altrettanto significativamente intitolato Dedica, è proprio un testo basato sulla trasmissione. Ne riporto qui lo splendido attacco: Mia nonna mi chiamava tesoro, lipscén / diceva e mi appoggiava una mano sulla testa / e mi diceva che era stanca. Vedi lipscén le stelle / che sono sopra di noi, il cielo – l’universo che / non ha confini pensa – a tutte le cose che ci sono / dentro pensa gli anni che ci separano e pensa / a quante persone, in questo preciso momento, / ed è possibile che sia così – tesoro, lipscén – si / staranno parlando delle stesse cose, e ci sarà una / brutta donna come me che piange dicendo al nipote / cose come queste (p. 17).

In ottemperanza al motto cartesiano – “e avendo deciso di non cercare altra scienza se non quella che potevo trovare in me stesso oppure nel gran libro del mondo” – è dunque la trasmissione genealogica e famigliare che si va, in ultima istanza, a giustapporre all’infruttuosità, non di rado ombelicale e autoreferenziale, delle genealogie poetiche della tradizione letteraria italiana.

La scrittura di Terzago è impegnata proprio in questa duplice trasmissione, mescolando abilmente introspezione ed esplorazione del grande libro del mondo. Quest’ultimo, per tornare al titolo, è composto anche da caratteri non latini, ma cinesi, ripercorrendo così un’esperienza biografica dell’autore che ritorna, variamente elaborata, in diversi luoghi del testo. Non che la scrittura di Terzago sia ideogrammatica, beninteso, ma la Cina si affaccia prepotentemente – Siamo entrati nel nuovo appartamento, / diciannovesimo piano, diciannovesimo pianto, / vista sui grattacieli che stanno rimpiazzando / uno degli ultimi villaggi (p. 63)  – come paradigma socio-economico e politico della contemporaneità, al quale solo si può opporre chi, viaggiando dall’Italia alla Cina e ritorno, o in altro modo, può ancora credere nel divenire: C’è ostinazione e speranza / nella luce omogenea che, attinta, sale dal pozzo / dove si muove la terra e noi con essa (p. 84).

Leggere la luce che sale dal pozzo, dunque – leggere e trovare nuovi caratteri.

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