I luoghi e le scritture (rubrica di Antonio Devicienti): i privilegi dell’insonnia (Charles Simic e Joseph Cornell)

Scatole come mondi:

Boîtes à musique, Wunderkammern, lanterne magiche e anche carnets de voyage, taccuini d’artista, bibelots oppure semplici scatole piene di conchiglie o di sassi o di cartoline continuano ad affascinarci , a sedurre la nostra mente la quale, degna figlia della modernità, nutre questa sua tendenza alla collazione di oggetti disparati da conservare e di quando in quando guardare. Ma nel caso di Joseph Cornell (1903-1972) e del suo appassionato esegeta Charles Simic gli oggetti da cercare e da raccogliere diventano contemporaneamente ragione di vita e d’arte, arte e vita stesse si direbbero quasi una moderna versione dell’erranza medievale, in questo caso metropolitana e dis-incantata (ma disposta, pur aliena da ingenuità e faciloneria, a farsi re-in-cantare).

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Charles Simic è non solo autore di libri in versi, ma pure di libri per fortuna molto difficilmente riconducibili a un genere letterario definito e preconfezionato, quali i due sui quali intendo fermare l’attenzione qui: Il cacciatore di immagini – l’arte di Joseph Cornell (Adelphi, Milano, 2005 traduzione di Arturo Cattaneo) e Il mostro ama il suo labirinto (Adelphi, Milano, 2012, traduzione di Adriana Bottini).
Il titolo inglese del primo libro suona Dime-Store Alchemy – The Art of Joseph Cornell, alla lettera L’alchimia del negozio a pochi centesimi, titolo già di per sé poetico e suggestivo, benché, me ne rendo conto, difficilissimo da tradurre in italiano, avendo esso a che fare con un preciso portato culturale degli Stati Uniti quali sono quei negozi in cui si possono trovare oggetti, anche usati, per uso personale o domestico a pochi centesimi. Il ben curato volumetto Adelphi regala, prima del frontespizio interno, una bellissima foto in bianco e nero di Cornell che, una mano a schermare gli occhi dalla luce, osserva un punto lontano davanti a sé sulla spiaggia di Westhampton a Long Island. Affascinante il volto inciso dal tempo e sereno, acutissimo lo sguardo concentrato su quel punto lontano, elegante il gesto del braccio levato e della mano quietamente tesa a procurare un po’ d’ombra agli occhi. Il libro è costituito da una serie di brevi capitoli – “per parecchio tempo ho desiderato avvicinarmi al suo metodo, fare poesia con sparsi frammenti di linguaggio (…..) quello che alla fine sono riuscito a fare è rendergli omaggio con una serie di brevi testi nello spirito dei poeti che amava”, scrive Simic a pagina 16 – integrati da 8 tavole a colori che riproducono altrettante scatole di Cornell. È un piccolo volume che perfettamente si accorda al suo contenuto, essendo stato scritto da un flâneur intorno a un altro flâneur, per cui si può scegliere di leggerlo (forse sarebbe meglio dire percorrerlo) in maniera tradizionale, dalla prima pagina all’ultima, oppure saltabeccando di qua e di là, facendosi incuriosire dal titolo di un capitolo, da una frase colta sfogliando le pagine, o affidando al caso l’aprirsi del libro su di un pensiero, una citazione, una tavola a colori.
“Dal 1921 al 1931 fece il venditore porta a porta nel quartiere manifatturiero di lower Manhattan.
Girando a piedi la città, tra un appuntamento e l’altro Cornell rovistava nei negozi di libri usati e di robivecchi. Cominciò a collezionare libri, dischi, fotografie, stampe, cimeli teatrali e copie di vecchi film”, apprendiamo a pagina 18. E a pagina 37: “Da qualche parte nella città di New York ci sono quattro o cinque oggetti ancora sconosciuti che vanno insieme. Una volta insieme, faranno un’opera d’arte. Questa è la premessa di Cornell, la sua metafisica, e la sua religione che vorrei capire.
Cornell parte dalla sua casa in Utopia Parkaway senza sapere di che cosa è in cerca, o che cosa troverà. Oggi potrebbe essere qualche cosa di tanto comune e interessante quanto un vecchio ditale. E potrebbero passare anni prima che quel ditale trovi compagnia. Nel frattempo, Cornell cammina e osserva. La città ha un numero infinito di oggetti interessanti in un numero infinito di luoghi improbabili.
Si direbbe che l’arte di Cornell, il suo farsi più precisamente, si offra come uno specchio alla stessa scrittura di Simic, si è fortemente tentati di immaginare Simic stesso vagare nell’immane città, ché l’America aspetta ancora di essere scoperta. I suoi vagabondi e i suoi poeti assomigliano ai primi navigatori che salpavano per i loro viaggi d’esplorazione. Persino nelle sue città esistono ancora spazi che i cartografi hanno lasciato in bianco” (pag. 38).
E allora Cornell e Simic ci appaiono come due moderni Wanderer e la loro come una quête nella New York labirintica che fu anche di Whitman, di Melville e Poe (scrittori citati da Simic e da lui accostati a Cornell che era anche un gran lettore e conoscitore di letteratura e ben sappiamo quali implicazioni anche metafisiche possano avere certi personaggi di Melville o certi racconti di Poe); altrettanto labirintica Parigi: Gérard de Nerval, Charles Baudelaire e Arthur Rimbaud furono letture anch’esse feconde per l’artista nordamericano.
Suggestionato dal libro su Cornell mi ritrovo a sfogliare la Trilogia di New York di Paul Auster e in particolare Città di vetro, Collezione di sabbia e Le città invisibili di Italo Calvino, La vie: mode d’emploi di Georges Perec, Die blassen Herren mit den Mokkatassen (“I pallidi signori con tazze da caffé“) di Herta Müller: riprendo in mano proprio questi libri perché mi accorgo di aver attraversato negli anni una costellazione di letture accomunate tutte dal Leitmotiv del vagabondare metropolitano, dal gusto per la collezione di oggetti inapparenti o trascurati (da salvare proprio tramite la parola narrante o il collage), da un’insonnia che, al di là della patologia, si rivela creativa e feconda. Forse non a caso Il mostro ama il suo labirinto a pag. 82 riporta l’annotazione: “Il collage è un mezzo di espressione da mistici”.
Herta Müller ritaglia parole ed immagini dai giornali per creare combinazioni inattese e rivelatrici, i suoi collages, che sono anche testi nello stesso tempo di poesia visuale e verbale, impiegano un medium della nostra modernità, il giornale appunto, tendenzialmente il quotidiano, la cui carta e le cui notizie sono destinate a vita breve (“niente di più vecchio del giornale di ieri” recita un adagio tedesco); Herta Müller ricerca e salva, pur montando in modo radicalmente diverso immagini e vocaboli, tale effimero materiale, lo offre alla lettura e alla contemplazione altrui, il libro che ne risulta è in qualche modo affine a una scatola di Cornell.
Oppure consideriamo l’impresa narrativo-esistenziale di Perec: l’immane condominio-mondo descritto è poi il palcoscenico sul quale si muove Bartlebooth, la figura unificante dell’intera costruzione; anche in questo suo dipingere, trasformare ogni acquerello in puzzle da rimontare e infine da cancellare si profila un comportamento del mistico che esperisce il vuoto e l’assenza, l’erranza e lo svuotamento del conoscere.
I due libri di Calvino sono due splendidi referti sulla nostra modernità che assembla parti, oggetti, idee, immagini in un panoptikon che solletica i sensi e il pensiero, perché amiamo ciò che ci disorienta, ciò che sembra giungere da un altro luogo e da un altro tempo, quello che rischierebbe di perdersi se non venisse salvato dall’occhio goloso del collezionista o del frequentatore di mostre e del lettore di cataloghi.
E infine ecco il binomio Auster-New York, ecco lo scrittore Daniel Quinn che assume l’identità dell’investigatore Paul Auster e riceve l’incarico di sorvegliare Peter Stillman il quale percorre in lungo e in largo Manhattan raccogliendo oggetti rotti e inutili, ossessionato dalla sua ricerca del linguaggio perfetto, dato che il mondo e con esso il linguaggio deputato a esprimerlo sono andati in pezzi.
E a cercare si trovano ancora altri agganci: Sebald scrivendo nel suo Soggiorno in una casa di campagna di Gottfried Keller ne rammenta il gusto da collezionista, per cui non c’è opera del narratore svizzero che non contenga pagine voluttuosamente colme di elenchi di oggetti assieme alla relativa descrizione, mentre la Buenos Aires di Borges e di Cortázar avrebbe pieno diritto d’appartenenza alla biblioteca tematica sul vagabondaggio metropolitano.
È un Cornell’s box la pietra di un’intensa poesia di Simic?

Càlati in un sasso,
io farei così.
Lascia che altri si facciano colomba
o digrignino i denti come tigri.
Mi basta essere un sasso.

All’esterno è un enigma:
nessuno sa come rispondere.
Ma fresco e quiete dev’esserci all’interno.
Anche se una mucca lo calca col suo peso,
anche se un bambino lo getta dentro un fiume;
il sasso affonda, lento, imperturbato,
fino al fondo
dove i pesci bussano alla sua soglia
e vengono a origliare.

Ho visto scintille schizzar via
quando due sassi sono strofinati,
forse là dentro non fa così buio;
forse c’è una luna che brilla
da chissà dove, spuntando magari dietro un colle –
un chiarore appena sufficiente a decifrare
quelle strane scritte, mappe stellari
sui muri interiori.

(Sasso, in Hotel Insonnia, Adelphi, Milano, 2002, pag. 25, traduzione di Andrea Molesini).

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Medici slot machine:

Come il libro di Jaccottet su Morandi (La ciotola del pellegrino, Casagrande, Bellinzona, 2007) anche questo di Simic è contemporaneamente uno studio appassionato e un’opera poetica vera e propria, una sorta di lunga ékphrasis delle scatole di Cornell che, come ogni ékphrasis riuscita, genera a sua volta un’opera d’arte, è essa stessa opera d’arte e in questo caso si tratta di un libro dal linguaggio immaginifico e altamente suggestivo, ricolmo di rimandi, interrelazioni, labirintico e arioso. Le scatole di Cornell non vengono infatti descritte, ma sono punto di partenza per costruzioni di pensieri e d’immagini, proprio quello che Cornell stesso avrebbe voluto, probabilmente.
“Sto cercando l’automa giocatore di scacchi con un turbante rosso. (…) L’eternità e il tempo sono le monete con cui l’automa funziona, la parte che tocca a ciascuno, per un’occhiata rapida a quel tutto che è il nulla.
Notte dei senza tetto, degli insonni, notte di quanti danno la carica agli orologi della loro anima, orologi fermi, davanti alla macchina con gli specchi” (Il cacciatore, pag. 54). E che cosa succede a un lettore che non voglia arrestarsi al libro che ha tra le mani? Può accadergli che, leggendo le parole di Simic, il suo pensiero vada al bellissimo film di Martin Scorsese Hugo Cabret dove una Parigi d’inizio Novecento direi non “ricostruita”, ma dipinta al computer e la Gare Montparnasse fanno da sfondo alle avventure del piccolo Hugo che cerca di riparare e di ridar vita all’automa costruito da suo padre; e, dopo esserci riuscito, scopre che l’automa è in grado di disegnare il razzo conficcatosi nell’occhio della luna della nota scena dal film di Georges Méliès Le voyage dans la lune (l’intero film di Scorsese è, tra l’altro, un commosso omaggio a Méliès e al grande cinema ai suoi albori); ma non basta: Hugo si occupa, senza che nessuno lo sappia, dei grandi orologi della stazione e nutre una passione totalizzante per i meccanismi e gli ingranaggi. Se il film è ambientato a Parigi, non dimentico quante volte l’occhio di Scorsese si è posato su New York e le lunghe sequenze notturne di Taxi Driver paiono non scostarsi molto da certe atmosfere create qui e nelle sue poesie da Charles Simic, anzi mi piace immaginare Cornell o Simic stesso che percorrono New York in taxi (Robert De Niro alla guida, ovviamente) e la città è a logarithm / of other cities come scrive John Ashbery in Selfportrait in a convex mirror, dal momento che la metropoli nordamericana è giunta davvero a costituire anche nella cultura europea contemporanea un paradigma della modernità urbana, industrializzata e informatizzata.
Il centro fisico del libro di Simic è costituito dalle tavole che riproducono alcune scatole di Cornell e da brevi testi in cui il genere tradizionale della descrizione viene radicalmente rinnovato, ché Simic segue un itinerario il cui snodarsi obbedisce alla sola legge delle suggestioni e delle associazioni che scaturiscono da una scatola specifica focalizzata quale punto di partenza.
“Medici slot machine”: Il nome incanta, e così l’idea – la giustapposizione del ragazzo rinascimentale, la slot machine da sala giochi, e la cabina delle foto automatiche nella metropolitana; mondi che a prima vista sembrano del tutto incompatibili – ma, naturalmente, siamo nelle “zone magiche” di Cornell, tra la Quarantaduesima Strada e Times Square. (…) Fuori, la strada è costellata di cinematografi dove si proiettano film noir. Uno si intitola Lo specchio scuro, un altro Giungla d’asfalto. Anche in quei film le facce sono spesso in ombra. (…) Il giovane sogna a occhi aperti. Un’immagine angelica nell’oscurità della metropolitana. La macchina, come tutti i miti, è fatta di parti eterogenee. Devono esserci ruote dentate, rotelle e altri congegni ingegnosi connessi alla leva. Quali che siano, devono essere ingegnosi. Il nostro sguardo affettuoso può metterli in moto. Una slot machine poetica che offre un jackpot di significati incommensurabili attivati dalla nostra immaginazione. Il suo repertorio mistico ha molte immagini” (Il cacciatore – pagg. 55-57). Infatti altrove Simic scrive: “Nessun senso estetico preconcetto può guidare il poeta e l’artista nelle metropoli americane, dove governa il caso” (Il mostro, pag. 82) – dubito che esista un modo migliore per spiegare la poetica di Simic e l’estetica di Cornell.
“Un giocattolo è una trappola per sognare. Il vero giocattolo è un oggetto poetico. (…) È quello che cerca anche Cornell. Come costruire un veicolo di sogni a occhi aperti, un oggetto che possa arricchire l’immaginazione di chi guarda e tenergli compagnia per sempre” (Il cacciatore, pagg. 79 e 80). Le automobiline di metallo verniciato, i trenini elettrici, le bambole di tenerissima plastica dagli arti snodabili, ma anche scatoline che la fantasia trasformava in camion che traversano il deserto erano già poesia in atto per noi bambini, sostengono Cornell e Simic, il pavimento su cui giocare era già l’universo sconfinato dentro il quale viaggiare senza requie (non dimentichiamo che l’aleph borgesiano si rivela in un sottoscala, aggiungo). Ogni vero gioco è però assai serio e impegnativo ed ecco il richiamo ai teatrini in miniatura e al teatro della memoria di Giulio Camillo, affascinante riferimento, ma non isolato, che fornisce una profondità storica e culturale che d’un sol colpo contraddice il luogo comune per cui gli Stati Uniti sarebbero un “paese giovane e senza memoria”; l’intera ricerca intellettuale di Simic interconnette infatti tempi e luoghi geografici distanti, il libro su Cornell ne è splendida riprova e viene offerto ai suoi lettori quale opera aperta da integrare; Fausto Melotti per esempio: il grande artista italiano ha costruito una serie di Teatrini che richiamano fortemente le scatole di Cornell; non saprei dire se ci sia stata conoscenza reciproca dei rispettivi lavori tra i due, le realizzazioni di Melotti sono anch’esse frutto di un assemblaggio di materiali eterogenei e hanno la liricità dei sogni, ma resta stimolante constatare delle affinità di ricerca tra artisti apparentemente lontani per origine e formazione – uno degli insegnamenti cornelliani e di Simic è proprio l’invito ad andare oltre le apparenze e i luoghi comuni.
Il libro sull’arte di Joseph Cornell si chiude con una sorta di mappatura di hotels immaginari in cui cullare la propria insonnia fino alla scoperta finale dello spazio vuoto e silenzio “(…) Poesia dell’assenza (…) APOLLINARIS. Apollo, dio della luce. Apollinaire il poeta, che amava gli artisti di strada, i musicisti con cornette e tamburelli, i funamboli, i giocolieri.
Ecco la lunga asta donataci dal dio dei sonnambuli. (…) Il vuoto, divina condizione, scuola di metafisica” (Il cacciatore, pagg. 113, 114): le ultime scatole di Cornell sono quasi vuote.
E infine ecco l’accostamento significativo tra Cornell ed Emily Dickinson, quest’ultima essendo uno dei numi tutelari di Simic il quale torna spesso a riflettere sull’opera e sulla vita della reclusa di Amherst:All’interno di ciascuno di noi ci sono stanze segrete” (Il cacciatore, pag. 102) e più oltre: “Cornell e la Dickinson sono entrambi inconoscibili, alla fine. Vivono dentro l’enigma, come direbbe la Dickinson. (…) Se le poesie della Dickinson sono come le scatole di Cornell, un luogo dove si custodiscono i segreti, le sue scatole sono come le sue poesie, un luogo dove le cose improbabili si incontrano.
(…) Viaggiatori ed esploratori delle loro personali solitudini, sanno renderle vaste, cosmiche. Sono artisti religiosi in un mondo in cui la vecchia metafisica e l’estetica sono state cancellate” (Il cacciatore, pag. 115). Mentre in versi Simic aveva scritto:

(…)
La verità è nuda e fredda,
disse la donna
che vestiva sempre di bianco.
Non usciva quasi mai dalla sua stanza

(La stanza bianca, vv. 21-24 in Club Midnight, Adelphi, Milano, 2008, traduzione di Nicola Gardini).

Il bianco, il vuoto, il silenzio dopo tanto cercare e accumulare oggetti e percorrere luoghi sono approdo e lascito per i lettori futuri, sapiente e umana reductio ad minimum dopo un coraggioso scarnificare e cancellare imparato nel corso di una vita.
Amo moltissimo una poesia di Charles Simic, questa:

Il maestro si alza senza voce davanti alla classe
di pallidi bambini con le labbra serrate.
La lavagna alle spalle è nera quanto il cielo
che dista anni luce dalla terra.

È quello il silenzio che il maestro ama,
il gusto d’infinito che trattiene.
Le stelle – impronte di denti sulle matite dei bambini.
Ascoltatelo, dice felice

(Molti zero, in Hotel Insonnia, pag. 99).

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Un poeta per Charles Lloyd:

L’arte di Charles Simic si caratterizza anche per una sua cordialità e umanità capaci di trovare espressione, per esempio, in due liriche composte appositamente per l’amico e maestro del jazz Charles Lloyd: se si sfoglia il booklet del cd Rabo de nube (ECM), dopo le belle foto dei musicisti del quartetto si possono leggere i due testi raccolti sotto il titolo Two for Charles Lloyd:

(…..)
Voice of solitude.
Voice of insomnia.
Call of a night bird.
Continuous prayer.
(…..)
Under a sky full of stars.
The mystery of this moment.
That sudden realization
that we have a soul.
(…..)
“Sweet Georgia”,
I hear someone whispering,
“Without this music,

life would be a mistake”

Si chiamano affinità elettive: l’ascolto del silenzio, l’insonnia che apre spazi di meditazione enormi, il mistero che si manifesta improvviso e inaspettato, lo schiudersi dell’anima che, nel linguaggio di Simic, significa pensiero, creatività, sensibilità, consapevolezza, solidarietà. E poi, nella strofa finale della seconda poesia, alla citazione di uno dei capolavori di Lloyd seguono quei versi meravigliosi che, penso, qualunque artista vorrebbe a suggello della propria arte: “senza questa musica / la vita sarebbe un errore”. E aggiungo: “Una poesia è un luogo dove si svelano le affinità. La poesia come pensiero per affinità” (Il mostro, pag. 76). Infatti i libri di Simic dei quali stiamo seguendo qui i sentieri sono debitori anche al jazz contemporaneo, musica capace di superare e di contemperare i generi più diversi, gli stili più distanti; è questo il modo in cui mi vien fatto di leggere l’opera dello scrittore perché non voglio né mi riesce di distinguere tra i suoi libri in versi e quelli in cosiddetta prosa.
Quale tipo d’arte è quella di Charles Simic? Risponderei anche in questo caso con uno dei suoi appunti: “Una canzone cantata capendo ciascuna parola – come facevano Billie Holiday e Bessie Smith” (Il mostro, pag. 62).
Ma Simic è tutt’intero pure in queste altre parole: “Le molle del letto cigolanti, una one-man band che suona il blues” (Il mostro, pag. 48). E ancora: “Preferisco Aristofane a Sofocle, Rabelais a Dante. Nel riso c’è altrettanta verità che nella tragedia, un’idea che non molti condividono. I più pensano tuttora che la commedia sia uno sbertucciare le cose serie della vita” (Il mostro, pag. 115). O anche: “Un altro vasto gruppo di analfabeti culturali che siamo costretti a sorbirci: i professori che non leggono letteratura contemporanea o non conoscono l’arte moderna, la musica e il teatro moderni, il cinema, il jazz, e così via” (Il mostro, pag. 105).

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I privilegi dell’insonnia:

“Tranquillo, amico mio, queste che dopo la mezzanotte viaggiano sulla metropolitana devono essere le madonne di Hieronymus Bosch” (Il mostro, pag. 122). Non saprei dire se esistano privilegi dell’insonnia per chi ne soffre, posso assicurare che tali privilegi esistono invece per i lettori che beneficiano delle creazioni scaturite dall’insonnia dell’artista; penso ad Attilio Bertolucci il quale più volte dice della propria insonnia nella sua poesia che è una benedizione per chi la legge e penso, ovviamente, a Charles Simic, alla sua visionarietà spesso surrealista, ma anche (e non si tratta di una contraddizione, credo) alla sua lucida visionarietà, tanto lucida da risultare lancinante: una stazione della metropolitana di notte, i neon accesi, le vetture illuminate che scorrono semivuote e le madonne di Bosch che si possono scorgere ritte attraverso i grandi vetri arrivare e ripartire a velocità sempre più elevata.
E come dimenticare il paesaggio di grucce di una dolorosa, icastica poesia, con la rievocazione finale della madre di geniale allucinazione?

(…)
e mia madre, proprio lei, che adopera i coltelli
come grucce mentre s’accoscia per pisciare

(Paesaggio con grucce, in Hotel Insonnia, vv. 13, 14)

O di nuovo la musica, la veglia di chi nella notte lavora e considera le malinconie proprie ed altrui:

ROUND MIDNIGHT – A MEZZANOTTE CIRCA
Mi piacciono di più i tasti neri.
Mi piacciono le luci abbassate.
Mi piacciono le donne che bevono da sole
mentre mi curvo sulla tastiera
in cerca delle note più amabili

(Il mostro, pag. 131).

Sono parole di Simic e potrebbero appartenere proprio a Thelonius Monk o a Humphrey Bogart nei panni di un detective in un film in bianch’e nero o ai musicisti protagonisti dell’omonimo film di Bertrand Tavernier o ad uno degli insonni avventori nei dipinti di Hopper.
“L’insonnia è un’agenzia di viaggi notturna con poster che reclamizzano luoghi lontani” (Il cacciatore, pag. 103), ma è anche dimensione creativa, permettendo appunto viaggi mentali capaci di scoprire prospettive inedite.
“L’idea di andare a dormire sul tetto nelle notti troppo calde, a Manhattan, mi venne da mio padre e mia madre. Lo facevano sempre durante la guerra, solo che non si trattava di un tetto ma di una terrazza all’ultimo piano di una casa nel centro di Belgrado. (…) Come una nave in alto mare. Avevamo stelle e nuvole sopra di noi. Navigavamo a vele spiegate. “Ecco dove comincia l’infinito” ricordo che disse mio padre, indicando con la lunga mano scura” (Il mostro, pagg. 25 e 26). Normalmente il cielo è invisibile dalle strade metropolitane, offuscato dall’illuminazione e dagli alti edifici, respinto in un’assenza che Simic annulla con un semplicissimo atto fisico (salire sul tetto), ma che dice anche di una volontà di salire del pensiero e della parola, dal momento che una delle direzioni più naturali da percorrere in una moderna metropoli è dal basso (ivi compresi gli spazi underground) verso l’alto, oltre che in orizzontale. Perfetta era stata l’intuizione di Kafka e del protagonista di Amerika nel descrivere altezze e distanze metropolitane, e di Lorca, “poeta a New York”, nel cogliere la complessità anche estetica (non solo sociale e culturale) della città e nel cercare un linguaggio e una struttura metrico-prosodica adeguati, radicalmente innovativi.

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“Mi piacerebbe scrivere un libro che fosse una meditazione su tutti i tipi di finestra. Vetrine di negozi, finestre monastiche, finestre colpite dalla luce del sole in una via di finestre buie, finestre in cui si riflettono le nuvole, finestre immaginarie, finestre d’albergo, finestre di prigione… finestre da cui si sbircia e in cui si sbircia. Finestre che hanno la qualità dell’arte religiosa, eccetera” (Il mostro, pag. 103). Non può sorprendere un’affermazione del genere fatta da un artista che fa dello sguardo un elemento di conoscenza e di creatività. Questi taccuini risuonano di una libertà e sbrigliatezza della mente che fa pensare ai film di Kusturica e alla musica di Bregovic, essi regalano passaggi delicati e malinconici (il ricordo del padre, per esempio, o di Belgrado bombardata) che spinge il pensiero alle intense talvolta liriche tal altra tragiche campiture di Rothko, il sublime pittore anche lui come Simic di origine slava e che, come poi Simic, trovò negli Stati Uniti la patria definitiva per scelta e per consapevolezza (uno dei primi dipinti di Rothko e ancora “figurativo” ritrae una stazione della metropolitana), e non bisognerebbe forse dimenticare né KlinePollock, il primo con quegli ideogrammi di nero inchiostro su foglio candido che ricordano le architetture portanti del Ponte di Brooklin, il secondo con i suoi colorati labirinti-dropping. Taccuini come un labirinto, o meglio, come labirinto dentro il più vasto labirinto che è il mondo; il mostro (Simic? il lettore? o chi altri?) ama il suo labirinto, come già avevano intuito Borges, Dürrenmatt e Tabucchi, consumandovi le proprie gioie e le proprie vergogne, ma ben sapendo che esiste un universo (o più universi) al di fuori del labirinto stesso. Il mostro, impastato di animalità e di umanità, percorre il suo labirinto (che è il labirinto di tutti) e attende l’arrivo di chi lo ucciderà, perché Simic non rimuove la presenza della morte, anzi, i suoi taccuini sono spesso frequentati dai morti della sua famiglia che continuano a dialogare con lui ed anche la riflessione sulle violenze della storia conduce a una meditazione sulla morte (indimenticabili le parole durissime e la condanna senz’appello contro l’amministrazione Bush e, comunque, contro tutti coloro, intellettuali compresi, che, collusi col potere, contribuiscono all’attuazione dell’inferno sulla terra).
“Ha disegnato un labirinto con dentro se stesso”, scrive Simic a proposito di Saul Steinberg in un lungo testo in cui cerca di descrivere brevemente, ma forse sarebbe meglio dire rievocare sotto forma di fulminee didascalie, i molti disegni dell’artista d’origine rumena (lo si può leggere in Adelphiana, n. 2, 2003). Esiste una bellissima scultura-architettura di Italo Lanfredini, Il labirinto d’Arianna, alla Fiumara d’Arte in Val di Tusa nella Sicilia Nordoccidentale, Il castello dei destini incrociati di Italo Calvino è un labirinto costruito di parole e di narrazioni, così come l’inarrivabile Rayuela di Julio Cortázar e Pynchon e Forster Wallace inseguono in ogni loro opera il concetto-mito, l’ossessione-fascinazione del labirinto. Ai Wei Wei monta sulla parte anteriore di un pullman una cinepresa e percorre, insieme con gli studenti dell’Accademia d’Arte, l’immane, labirintica rete stradale di Pechino filmando ogni tratto di strada affrontato; il film-monstrum che ne risulta dà conto di una realtà metropolitana che, però, è già in fase di repentino mutamento, partecipando e dell’aspetto metropolitano (in questo caso l’azione di Ai Wei Wei ha un significato politico tendente a denunciare la distruzione sistematica delle vestigia del passato e la forsennata speculazione edilizia in atto) e di quello esistenziale, mostrando l’individuo vagante nel labirinto sempre cangiante della città industriale. Le riflessioni cui questi artisti ci costringono vanno infatti ben oltre l’immagine spesso stereotipa del labirinto di Cnosso o dei labirinti medievali: il tema centrale è la mente immersa in una realtà soggetta all’entropia, frattale e quantistica.

Ti voglio sistemare in una gabbietta al di sopra del mio cuscino.
Mi terrai compagnia,
avvisami ogni tanto
via via che il silenzio si accresce.

Mio padre passava notti intere in bagno
a pensare al significato della sua vita.
Ci dimenticavamo di lui,
lo ritrovavamo lì la mattina dopo, addormentato.

O muri, soffitti astuti
e specchi al buio,
ho sentito il suo orologio da tasca ticchettare sulla sua tomba –
o era un grillo?

Nella stessa erba alta
dove l’eternità veniva costruita
da alcune solitarie lucciole
nelle falde del nero cappotto di qualcuno.

(Il grillo dell’insonnia, in Club Midnight, cit.).

 

Le immagini che corredano l’articolo provengono dal sito del Guggenheim Museum di Venezia.

 

 

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