di Roberto Batisti
in memoriam Thomae Labranca
Πάντες τῷ θανάτῳ τηρούμεθα καὶ τρεφόμεσθα,
ὡς ἀγέλη χοίρων σφαζομένων ἀλόγως.
(Pallada, Anth. Pal. X 85)
Terzo ed ultimo appuntamento con “una musica perfettamente noiosa. Attorno alla galassia Houellebecq”. Leggi la prima e la seconda parte.
7. Si è già detto che anche in Houellebecq il pregio più grande è la disperata (romantica, direbbe lui) umanità che fa da sottinteso al suo spietato disumanismo, affilandone vieppiù i dardi; e che i suoi punti più alti sono quelli in cui questo intimo contrasto diventa più percettibile. Resta da dire che, anche così, il momento migliore in assoluto del francese non è, certo, nelle fiacche poesie, ma neppure necessariamente nei romanzi. Penso a Contro il mondo, contro la vita, il suo saggio giovanile su Lovecraft, che è forse il capolavoro di Houellebecq, e sicuramente è il capolavoro di Lovecraft. Quest’ultimo è uno scrittore tanto intrigante e suggestivo nella sua morbosità da esser capace d’influenzare non solo le varie branche della cultura pop (e queste, come tutti sappiamo, davvero a dismisura, ormai molto al di là delle stanzette dei nerd), ma anche i letterati di razza, a partire da Borges (troppo classicista e razionalista nelle sue geometrie, tuttavia, per toccare davvero l’orrore lovecraftiano in There are more things, dove c’è la stranezza senza il terrore); preso in sé, però, non appare certo alla loro altezza. Vale per lui quel che osservò Oswald Spengler sul culto baudelairiano di E.A. Poe; secondo Spengler, Baudelaire
ha scambiato una vuota speculazione sui nervi (Poe è l’inventore del romanzo poliziesco, d’appendice e criminale) per hashish, senza coglierne la grossolanità: ha scambiato il cocktail per un Borgogna.
E il fenomeno si è d’altronde ripetuto in età più recente: basti vedere le reazioni indignate di Harold Bloom contro Stephen King (“uno scrittore di penny dreadfuls!”), reo d’aver ricevuto (nel 2003) lo stesso premio finito nelle mani di scrittori ‘veri’ come Saul Bellow e Philip Roth. Non sarà un caso che lo stesso King abbia scritto la prefazione al saggio lovecraftiano di Houellebecq. In ogni caso, non interessa qui indispettire gli appassionati del solitario di Providence, quanto osservare che Houellebecq ha dato (a inizio carriera) il meglio di sé nel momento in cui non ha dovuto preoccuparsi d’inventare una trama o di creare dei personaggi (esercizi che non sono il suo forte; del Grande Romanziere gli manca la generosità creatrice e l’ambizione di far concorrenza allo stato civile, di modo che i suoi personaggi tendono a essere simbolici, autobiografici, o entrambe le cose), ma ha potuto sbizzarrirsi riparato dietro la maschera esemplare di Lovecraft, questo suo fratello in ispirito – che è uno scrittore, come s’è detto, assai discutibile, ma di certo un personaggio memorabile. Il quale, naturalmente, diviene per il francese un eroe mitologico del negativo, simbolo di tutto ciò che a Houellebecq stesso sta a cuore esprimere; non è qui che deve rivolgersi chi cercasse una biografia obiettiva e precisa dello scrittore americano. Un simile esercizio d’ammirazione Houellebecq l’ha svolto ora con Arthur Schopenhauer, altro esemplare spregiatore del mondo e quindi altra anima gemella. Ma si tratta d’uno scritto più contenuto e misurato, sotto forma di traduzione e commento d’alcuni passi scelti di Schopenhauer: istruttiva e agile lettura, nitido omaggio della maturità e non appassionato manifesto giovanile.
8. Certo, è probabile che i critici più giusti di Lovecraft siano al contrario quelli più impietosi. Può ben darsi che scrivesse irrimediabilmente male, e che insomma la vera massa putrescente infernale fosse la sua prosa. Può ben darsi che, come sosteneva Angela Carter, Lovecraft non fosse altro che un bambino mai (o mal) cresciuto, e che i suoi orrori cosmici altro non siano altro che una trasfigurazione mitica delle cieche, ostinate paure infantili. Eppure proprio l’infantile impuntatura contro tutto ciò che nel mondo non va – c’est-à-dire, non questo o quel problema singolo, ma il mondo stesso – ha molto di nobilmente filosofico; è alla radice di quell’atteggiamento dolorosamente nichilista che ammiriamo e riconosciamo come degno di considerazione in autori meno nerd, più strutturati. Questa postura di fondo si può rintracciare anche nello stesso Houellebecq, e così in quella costellazione di pensatori e scrittori più o meno misantropi e malmostosi che orbita idealmente attorno al francese.
Così – al netto delle differenze di stile già notate – Emil Cioran, che vent’anni fa Houellebecq contrapponeva a Sartre, nume intellettuale del dopoguerra e del suo detestato Prévert, sostenendo che se in quel clima d’euforia era di moda il maître à penser esistenzial-umanista, “oggi il pensatore più influente sarebbe piuttosto Cioran” (facile quanto azzeccata profezia: in un mondo che fa del suo meglio per incoraggiare ogni nichilismo, le quotazioni del rumeno sono alte quanto mai presso i giovani più cool).
Così Schopenhauer, la cui presenza nell’opera houellebecquiana era facilmente intuibile anche prima del coming out nel recentissimo saggio. Il pessimismo del filosofo di Danzica, rigorosamente scientifico e ateo nelle basi quanto lirico nelle conclusioni, condito da reazionarismo politico e scontrosità personale che contraddicono – allzumenschlich – l’appello alla compassione, sembra fatto apposta per incontrare gli umori del francese più dei torbidi pessimismi del Novecento, provincialmente antropocentrici (“chissà quanto Schopenhauer avrebbe trovato insufficienti i concetti di assurdo nati nel XX secolo, lui che vedeva l’esempio più eloquente di tale assurdità nel lavorio incessante della gravità”).
Così J.-K. Huysmans, altro scrittore apparentemente assai distante dal Nostro se non proprio agli antipodi stilistici, che però non a caso diventa in Sottomissione il suo alter ego di secondo grado tramite il protagonista François, devoto studioso dell’autore di À rebour. Sulle sotterranee affinità fra i due, che predatano l’omaggio esplicito di Sottomissione, ha insistito in un bell’articolo Adam Leith Gollner. Questi due uomini impossibili da (e incapaci di) amare, schifati dall’umanità e dal mondo, hanno entrambi vissuto e scritto in epoche in cui, sia pure in sensi diversi, i rapporti fra religione e società erano in crisi; ma hanno entrambi sentito il richiamo del misticismo come possibile via d’uscita da un cosmo detestato. E il percorso di Huysmans dal decadentismo ai piedi della croce sembra prefigurare l’ex antiislamico Houellebecq con il suo François rifugiato all’ombra della mezzaluna.
È sempre Gollner a ricordare fra cotanto senno un altro insospettabile huysmaniano come Richard Hell, intellettualissimo inventore del punk americano e fan dichiarato di Houellebecq, col quale condivide lo sguardo analitico, distaccato (e perciò crudele) sulle più sordide passioni umane. Nella sua autobiografia del 2013 I Dreamed I Was A Very Clean Tramp, Hell ricorda di aver sempre osservato non solo le interazioni sociali ma anche le proprie stesse esperienze estreme – sessuali, psicotrope, artistiche – con l’occhio dello scienziato, come se tutto fosse in ultima analisi un esperimento. Anche se lo stesso Hell non mette troppo in risalto questa connessione, non si può non pensare al fatto che suo padre – scomparso quando l’allora Richard Meyers aveva solo sette anni – era uno psicologo sperimentale. Oggi Hell è uno scrittore prolifico e acuto, anche se ha abbandonato la poesia degli anni giovanili per la prosa narrativa e saggistica. Com’egli stesso ha osservato, i suoi romanzi hanno uno stile, per quanto diretto e brutale, meno disadorno rispetto a quelli di Houellebecq. Anche nelle canzoni questo ragazzo americano cresciuto con Bugs Bunny e i cowboy da cartoon ha sempre cercato di veicolare con swing e fisica immediatezza contenuti filosofici né semplici né rassicuranti. Il capolavoro, certo, è l’anti-inno di ‘Blank Generation’, un urlo munchiano reso memorabile da interventi chitarristici che restano a testimoniare il genio extraterrestre di Bob Quine e Ivan Julian. Ma certi pezzi musicalmente meno memorabili contengono testi altrettanto significativi. Si ascolti ‘Who Says?’, che su ritmo sbarazzino quasi di filastrocca snocciola un lucido saggio sulla futilità del tutto (abstract: vivere è terribile e privo di senso, ma al tempo stesso è una dipendenza quasi impossibile da dismettere, e quindi ci autoconvinciamo che sia bello, contro ogni evidenza: users just can’t see the horror / tell one if you wanna bore her). Praticamente un Leopardi ballabile; anzi: pogabile.
Fine