Un tecnologico che sovverte la tradizione. Basilio Reale – La vita attiva

di Diego Conticello

Le quindici poesie de La vita attiva sono state pensate e composte da Reale nei ferventi anni (1959 – 1963) dell’arcinoto dibattito culturale fra <<letteratura e industria>>, in un clima dunque dove l’accesa attività editoriale de Il menabò, la rivista di Vittorini e Calvino, proponeva a cadenza annuale sempre nuovi scrittori che trattassero questa tematica allora ‘scottante’. Nonostante l’autore di Conversazione in Sicilia dichiarasse, nella prefazione al numero 6 della suddetta rivista, di voler accantonare in quel volume il discorso sul rapporto letteratura – industria, al fine di non <<monopolizzare>> gli interventi su un singolo tema, seppur impellente, i testi poetici dei giovani autori ivi presentati (Isgrò, Majorino, Miccini, Pellisari, Villa e appunto Reale), sembravano tuttavia incentrati su quel fulcro.
La speranza per il nostro di poter pubblicare quelle composizioni sulla rivista edita da Giulio Einaudi si presentò curiosamente nel periodo in cui, invitato da Raffele Crovi, Reale si recava di frequente a casa di Elio Vittorini per giocare a “briscola scoperta”. Proprio un saggio del Crovi, Una linea della ricerca poetica, introduceva questi sei poeti, affrontando la questione del pubblico della poesia in termini di distacco dalla produzione dei nuovi autori, per via dell’eccessiva proliferazione di opere in versi. Uno scritto in cui il critico tentava altresì di dare sistemazione alla poesia moderna italiana da Montale in poi e dove giudicava negativamente sia il neorealismo che i cosiddetti “novissimi”, dando risalto invece a quei poeti di <<Officina>> quali Pasolini, Leonetti, Sanguineti e ad altri ancora, visti come novelli “riqualificatori” del linguaggio tramite il plurilinguismo.
In tale prospettiva quei giovani poeti pubblicati sul Menabò (soprattutto Villa e Reale) attuavano, di contro ai neoformalisti, propositi di
a) ricerca dei nessi tra pratica del sensibile e sua rappresentazione senza predisposizione di un ordinamento ideologico; b) ricerca di un linguaggio oggettivo, ma non positivista; neonaturalista (se per <<natura>> non intendiamo la semplice realtà naturale, ma il contesto sociale in cui l’individuo opera).

E tuttavia, per rendere conto degli infiammati toni del dibattito, Giorgio Bàrberi Squarotti prendeva posizione nei confronti del tentativo croviano di formare un estremo baluardo di poeti neonaturalisti, asserendo che i loro versi erano <<estremamente sfuggenti, inafferrabili>>; non vi riscontrava quella oggettività di linguaggio tanto decantata invece dal critico emiliano, tessendo a sua volta le lodi della neoavanguardia. Ancora Crovi, nel suo pur “azzardato scritto pansistematorio”, affermerà non a torto, nel delineare i segni di questa cerchia neonaturalistica:
Nell’ <<accadimento>> c’è, per essi, una grande forza di smitizzazione: vi si ancorano come i sociologi, per vincere i moralismi e le tentazioni irrazionali. […] Non idolatrano la tecnologia, ma non ne rifiutano la funzionalità progressiva. L’attivismo è, per essi, una opzione pacifista sul futuro. […] Soggiaciono ad un certo automatismo e subiscono una certa intimidazione dal mondo organizzato (dalla civiltà di massa), ma che esorcizzano quell’intimidazione – fissandone la pretestuosità – attraverso quell’automatismo.

Niente di più pregnante per descrivere quel cosiddetto “linguaggio tecnologico” della raccolta realiana.
Dal canto suo Lamberto Pignotti, nella raccolta dei propri saggi sul tecnologismo nella poesia, immette Basilio Reale fra quei poeti che utilizzano il “tecnologismo descrittivo” col <<rischio dell’amplificazione vuoi espressiva vuoi ideologica, in particolare del “messaggio ideologico esteticamente trasportato”>>. In Reale avviene ora che il linguaggio sia di certo ‘tecnologizzato’, ma che non si ricerchi senz’altro quell’enfasi espressiva o ideologica così reclamizzata dal critico e poeta toscano. Per dimostrare il mio assunto confrontiamo alcuni passi delle poesie di Reale, vagliati proprio alla luce delle categorie pignottiane di linguaggio: “meteorologico”, “della moda”, “burocratico” e “commerciale”.

L’anticiclone centrato sull’Europa
si è esteso a sud delle Alpi,
rigenerando una depressione
sulla valle padana,

Qui il linguaggio preso in prestito dalla meteorologia non sembra portare con sé bagagli di qualsivoglia ideologismo, è solo una constatazione pragmatica atta a creare ossimoro con una seconda parte più liricizzante:

[…] e il primo moto della primavera
si irraggia per canali misteriosi
e un brivido sorprende la città
che si apre a lievi paradisi
di verde (forse intacca
il ferro della torre, sentinella
della nuova vita dell’uomo).

Un buon ‘atto comunicativo’ per il settore “lingua della moda” potrebbe essere il seguente, ma senza trasporto espressivo, anzi con intenti diametralmente opposti:

Tu senti il tempo? E come ti difendi?
Porti grossi pullover di lana,
fasciacollo scozzesi, sottogonne?
Vai a letto con la boule?

Cara, ti devo ringraziare
se invece delle quindici e diciotto
sei partita alle sedici e ventuno
per restare con me ancora un poco […]

Dove quest’ultima strofa è il tentativo riuscito di traslare linguaggio poetico in ‘burocratese’ (in questo caso del settore dei trasporti). Per l’ambito commerciale cito una quartina dal sapore di “calcolo aritmetico del sentimento”, fra l’altro senza carico d’enfasi emotiva:

Così, l’anno per me finisce a giugno,
tu parti con il cane e col bagaglio,
io preparo il magro consuntivo:
sommo tutto, sottraggo e poi divido.

Se barlumi d’ideologia esistono si colgono nelle brevi descrizioni alienanti della vita da “uomo attivo”, ma non trasmettono nessun ossessivo risentimento proletario, somigliano solo a lievi flashes denotativi:

Inizia quest’altro giorno
col rumore dell’acqua nel gabinetto;
stridono serrande e ribolle il caffè.
Inizio da tutti i redditi soggetti
all’imposta immobiliare, non ho
pazienza né forza
di volontà. Cosa volete da me?
A nulla serve suonare il piano.

A ragione dunque Basilio Reale è stato sempre descritto quale autore che non “sventola bandiere”, bensì che versifica <<con un più di sofferenza e di misura, con un più di discorso diretto sui temi del “quotidiano tecnocratico”, con un più di ironia autoesorcistica che maschera peraltro un minore disimpegno rispetto agli strumenti espressivi della tradizione immediata>>.
Un poeta – in definitiva – che sovverte i canoni di quella “lingua della tradizione”, ormai spenta, per restituircene una <<strumentalmente moderna>>, fatta di <<nuove categorie lesicali>>, più fruibile perchè priva di aulicismi e orpelli.

Rispondi