Papini poeta antiumanista

di Diego Conticello

 

Raoul Bruni – Padova: Papini e la poesia (1912 – 1919)

Quando si pensa alla figura di Giovanni Papini, lo si vede più come ideologo e polemista che come poeta, anzi spesso lo si etichetta col disprezzabile appellativo di ‘poligrafo’. Tuttavia, già Contini aveva individuato nella poesia l’espressione più felice del nostro, ponendolo al di sopra di tanta scrittura frammentaria e ‘vociana’ di quegli anni, nel delinearlo quale precursore dell’Ermetismo.
Biase pensa che di latitudini poetiche sia pregna tutta la produzione dell’autore. Il compianto Luigi Baldacci riconosceva nel verso del Papini una “religiosità perenne”. Prezzolini ne vantava la compresenza di liricismo e filosofia (i modelli in questo senso sono William James, Henry Bergson e Nietzsche).
Per la poesia, punti di riferimento ineludibili agli occhi di Papini sono Baudelaire, il Raimbaud de Illumination, lo scapigliato Carlo Dossi e altri poeti dei frammenti in prosa, quali l’amico Ardengo Soffici o il D’Annunzio di Faville del maglio.
Opera prima (1912), Cento pagine di poesia (1915) e Giorni di festa (1919) sono i principali titoli di poesia di questi anni.
Uno stile ermetico ante litteram accompagna la produzione papiniana, tracciata a forti tinte auliche e desuete, con la presenza di numerosi neologismi. Diverse quartine sembrano costruite in maniera del tutto arbitraria e sbilenca, ma in realtà il labor limae è certosino.
Le intense riflessioni di Papini conducono a poesie talvolta filosofiche (in molti versi è marcata la teoria dell’eterno ritorno, di ascendenza nietzchiana), talaltra contaminate con altre arti, come nel caso di quelle composte attenzionando gli affreschi dell’amico Soffici.
Un raimbaudiano desiderio di fuga si unisce ad una ricerca dell’infinito, sul modello leopardiano, provocando l’avversione per tutto ciò che sente di cittadino.
E tuttavia, un male eterno disamora il verso papiniano, potremmo dire un pessimismo cosmico da preghiera laica (si vedano i versi di“Dacci oggi la nostra poesia quotidiana”), con un desiderio vano verso l’apertura, la connessione lirica con uno sfuggente assoluto. Il poeta è solo, novello Diogene Laerzio, e cerca l’uomo in rarefatti microbestiari dove ogni altro è, a sua volta, solo (apertura di Cento pagine di poesia).
In queste prime raccolte c’è anche l’idea di un classicismo nuovo, soprattutto in Opera prima, che configura il nostro quale antiumanista sui generis.
Il senso metafisico delle cose lo distingue da certo bozzettismo toscano fin de siecle; la natura, mediocremente trattata in certa narrativa coeva, diviene una sorta di paradiso perduto (“S. Martino la palma”).
Forse è proprio l’eclettismo la chiave di volta che ci fa apprezzare Papini; l’interesse nei confronti della sperimentazione, della ricerca di prospettive sempre nuove è qualità non dei ‘poligrafi’, ma degli intellettuali di un certo rilievo.

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