I luoghi e le scritture (rubrica di Antonio Devicienti): su “Memento vivere” di Donatella D’Angelo

Sono molti i “luoghi”di questo libro, molteplici le relative “scritture”: la fotografia, il corpo, la quotidianità, i luoghi familiari e intimi della casa, gli oggetti della e nella casa, il ricordo, l’assenza, la scrittura in versi, il dialogo (ma con un interlocutore non più presente), la partitura stessa del libro in quanto (anche) oggetto. Memento vivere (Milano, edizioni del Foglio Clandestino, 2016) è, infatti, punto d’arrivo (ma anche di partenza per il lettore che vi si accosti e per l’autrice la quale, sicuramente, avvierà nuovi progetti dopo il volume di cui vado ora a scrivere) di un tempo personale e artistico complesso, stratificato e profondamente progettato e pensato. Di tanto in tanto capita, infatti, di ritrovarsi a meditare su di un’opera che chiaramente è non soltanto una realizzazione d’arte, ma anche parte viva e direi carnale di una vita e le cui implicazioni non sono solo estetiche, bensì pure esistenziali e sentimentali, psicologiche e intellettuali. È esistito infatti un legame (amicale o amoroso o entrambe le cose) che la morte sembra aver reciso – e questa è l’implicazione biografica ed esistenziale di Memento vivere; c’è stata un’unità d’intenti a livello artistico e intellettuale – e questo tocca la valenza estetica dell’opera.

 

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Donatella D’Angelo parte da quello che (spero correttamente) chiamerei uno studio fotografico attorno al tema del corpo vivo quale presenza e/o assenza all’interno di spazi e ambienti spesso familiari (le stanze della casa) e si tratta di un progetto che la fotografa ha elaborato e portato avanti insieme con Josè Lasheras. Senonché la morte del fotografo ha aperto almeno due prospettive: quella dell’assenza (e quindi del vuoto) e quella della meditazione ora anche verbalizzata tramite la scrittura in versi di questa medesima assenza. Ma tengo subito a sottolineare che, a mio modesto avviso, non si debbano leggere i testi del libro quali referti di una (banale, mi si perdoni l’espressione forte) “elaborazione del lutto” – un tale atteggiamento non farebbe scorgere la validità e l’incisività, oso dire addirittura la bellezza dell’intero progetto, la sua riuscita artistica. Il superamento, o almeno la convivenza quotidiana con il lutto sono dati privati che devono rimanere nella sfera privata dell’autrice; a noi lettori deve interessare il risultato di un lavoro che vuole andare ben al di là della semplice esperienza individuale e psicologica, che cerca un nuovo e convincente equilibrio tra immagine e testo poetico focalizzando il difficilissimo tema della presenza e dell’assenza. E tutto questo accade tematizzando un altro elemento oggi molto di moda e, quindi, usurato e inflazionato: il corpo.
Succede, allora, che Donatella D’Angelo imbastisce un fitto dialogo tra l’occhio (che guarda traverso l’obiettivo fotografico) e la parola scritta, donandoci un libro il quale racchiude, tra le pagine nelle quali sono stampati i brevi, scarni e incisivi testi, lo scrigno delle fotografie, il percorso iconografico che sta a monte e a valle dei testi stessi; e il tutto non è una confessione dell’animo o un diario intimo, ma un’attenta, meditata costruzione di testi (sintatticamente ineccepibili, tra l’altro) e d’immagini a colori risultanti da una particolare tecnica fotografica.
E se un richiamo immediato, guardando le foto, sembra rintracciabile nell’arte di Duane Michals e di Francesca Woodman, anche per questo la fotografia di Donatella D’Angelo dimostra quanto spesso la fotografia stessa contraddica e dimostri falsante il pregiudizio “naturalistico” di cui essa è spesso vittima (ma chi conosce gli scritti di Roland Barthes, di Susan Sontag, di John Berger, di Luigi Ghirri sa bene di che cosa stiamo parlando e come vada impostato un discorso serio e attendibile intorno alla fotografia) e sappia indirizzarsi, invece, come la scrittura, verso la costruzione di spazi e di situazioni che appartengono alla sfera mentale dell’essere umano, superando così la banalità della restituzione meccanica di ciò che l’obiettivo “vede”, nello stesso modo in cui la scrittura nega sé stessa quale mera descrittività del reale per affermarsi, invece, quale momento d’invenzione e di ampliamento del reale stesso. Il pregiudizio platonico secondo il quale l’arte sarebbe mimesi del reale viene a dimostrarsi, ancora una volta, sbagliato e ingiusto – ché Donatella usa e l’obiettivo e la parola quali precisissimi scandagli da attivare dentro le stanze della mente e dell’esistere.
E non si trascuri il fatto che, molto concretamente, il lettore aprendo il libro si ritrovi a leggere in sequenza i testi poetici, per poi arrivare a sfogliare le immagini e continuare la lettura dei restanti testi, il che significa che la parola, il suo ritmo, il suo organizzarsi in versi e in proposizioni, il suo significare guidano la mente fino al momento in cui anche lo sguardo fisico (che finora ha soltanto letto i singoli vocaboli, magari coadiuvato da un altro tipo di sguardo, quello di cui è dotata l’immaginazione) si attiva e, appunto, guarda le immagini – c’è sempre uno spazio (una stanza: la camera da letto, lo studio, il soggiorno, un disimpegno della casa, una rampa di scale in legno…) al cui interno sono presenti uno o due corpi, l’uno femminile, l’altro maschile, e sempre nudi. Ecco: la nudità (ma come velata o attenuata e comunque volutamente allontanata da possibili implicazioni o tentazioni voyeuristiche e dunque bassamente volgari tramite un effetto di sfumato e di sovrapposizione) è fattore fondamentale, ineludibile e necessario. Ne spiego subito il perché: certamente siamo vittime del tabù di matrice biblica il quale connette la nudità alla colpa e al peccato, ma può esistere anche una percezione del corpo nudo quale manifestazione visibile dell’identità non più celata, non più camuffata o rimossa della persona; l’idea di Donatella è, mi sembra, che il corpo nudo non possa mentire, ch’esso, anche mostrando le proprie imperfezioni, mostri, appunto, la persona quale essa, nei suoi desideri e angosce e solitudini e slanci e errori e ignobiltà e nobiltà, realmente è. Allo stesso modo sono nudi i singoli testi poetici: formalmente brevi, rasciugati nell’espressione (ch’è netta e priva di effetti o sbavature), incisivi nel ritmo e nel contenuto, essi si susseguono portando avanti il medesimo studio attorno al tema della presenza e dell’assenza.

 

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L’elegantissimo volume, il cui progetto grafico è della stessa Donatella D’Angelo, si articola in un Libro I e in un Libro II, i testi sono numerati senza soluzione di continuità dall’1 al 69, mentre tra il testo numero 37 (ultimo del I Libro) e quello numero 38 (primo del II libro) si colloca il repertorio delle 12 foto a colori chiamato LOS RESPIROS DEL ALMA e create da Donatella e Josè nel 2013; grosso modo si può affermare che il Libro I tematizzi la morte di Josè Lasheras, il Libro II il tempo vissuto da Donatella dopo quella morte.

 

dal LIBRO I

1

non sopraggiunge la morte
c’è

senza gesto

nessuna colpa
per quel respiro mancato

(pag. 23)

Com’è facile constatare, l’intero libro prende avvio da un’affermazione definitiva, da un dato di fatto inamovibile e incontrovertibile: “la morte c’è” – e Donatella, faccio notare, sgombera subito il campo (o si libera in maniera perfettamente razionale) del senso di colpa che, pure, i vivi avvertono sempre, in modo irrazionale e istintivo, dopo la morte di una persona cara o della percezione di una colpa che, in maniera altrettanto irrazionale, pur senza confessarlo e confessarselo apertamente, essi attribuiscono a chi è morto: è proprio qui il luogo difficile e arduo, durissimo e doloroso, cioè il punto in cui si deve assumere coscienza della verità che la morte è un dato di fatto, un oggettivo accadere cui poi la nostra psiche collega una miriade di sentimenti e pensieri. Ma, evidentemente, anche la scrittura per mettersi in moto deve muovere da un luogo così nudo e definitivo.

3

quando l’umano scivola via
cosa resta tra le pieghe del volto?

L’impronta del corpo maturo
nel risvolto di una coperta troppo corta

l’affanno sospeso nell’aria acerba
insieme al ricordo del male lontano

(pag. 25)

Ecco: sembra di “vedere” e riconoscere nei versi testè letti più d’una foto di D’Angelo/Lasheras e, guardando le foto, risuona nella mente proprio questo testo: lenzuola, divani, tavoli, gradini, vani delle porte, scansie sembrano conservare pieghe che accolgono, contemporaneamente (e NON è una contraddizione, NON è un paradosso), la presenza e l’assenza della vita, o anche il ricordo che è, appunto, presenza di un’assenza; infatti:

6

il ricordo nell’ascolto
e nella bellezza sottile
di una veglia forzata

là dove il destino lascia
il sogno scoperto
e una curva dolce
di sangue e latte materno
agli angoli della bocca

è nell’incontro tra labbro e ciglio
la verità sospesa

(pag. 28);

si noti la commovente bellezza del distico finale, l’accostamento tra sangue e latte materno nei versi a esso precedenti, o meglio, quel disegnare “una curva dolce” che possiede nel medesimo tempo la bellezza semplice e armoniosa della figura geometrica e la connotazione della curva della vita umana, mentre l’intero testo è introdotto da una terzina dove “il ricordo nell’ascolto” s’associa alla “bellezza sottile” “di una veglia forzata”, la consapevolezza di una malattia che porterà ineluttabilmente alla morte, l’attesa di una tale morte (tema che costituisce una sorta di basso continuo di tutta l’opera) è capace di donare all’esistere una profondità, una prospettiva e un senso del tutto nuovi, dolorosi e colmi d’angoscia, ma anche vertiginosamente vivificanti.

11

il tempo riflette i nostri umori
di nuvole e vento
pioggia sottile di primo mattino

e noi zitti ad ascoltare
quel che resta della sabbia

raschia alla porta
la fine
come una cagna affamata
non intende ragioni

(pag. 33):

queste tre strofe testimoniano molto bene del processo di scarnificazione cui Donatella ha voluto sottoporre la propria scrittura, scarnificazione che, coerentemente, trova ai miei occhi il proprio correlativo oggettivo nella “sabbia”, materia e immagine capace di veicolare appunto l’idea dell’asciuttezza dell’espressione poetica, ma anche l’idea classica dello scorrere e del fuggire del tempo, il concetto del ridursi del corpo a polvere e a cenere – e si noti che “quel che RESTA della sabbia” (ecco affiorare il concetto della consumazione e della consunzione) produce un suono e questo è tanto più importante in un libro al cui centro anche strutturale ci sono delle immagini, ma è evidente che ascoltare e vedere sono i perni attorno cui ruota l’arte di Donatella; qualcuno potrebbe pensare, conoscendola più come fotografa che come poetessa, che lo sguardo rimanga il suo medium privilegiato; leggansi allora i versi seguenti:

12

lo sguardo non aggiunge
alla materia, ma toglie

e fissa
due vite sedute al tavolo
dell’ultima cena

saprà l’angelo con la valigia
allontanarsi
in punta di piedi?

(pag. 34):

in questo caso è stata necessaria la scrittura per dire dello sguardo, a conferma della necessità con cui si è fatto questo libro, sinolo d’immagine e parola e per ribadire un’idea davvero illuminante: guardare non significa aggiungere, ma, michelangiolescamente, sottrarre al fine di poter vedere davvero, ché guardare, fotografare, scrivere sono atti conoscitivi – e non dimentichiamo che Roland Barthes nella Chambre claire, articolando il suo discorso circa lo spectrum e il punctum della fotografia, ci aiuta a vedere anche l’aspetto “mortuario” della fotografia, il suo essere, appunto, presenza di un’assenza.

15

tutto nasce dall’acqua
e all’acqua torna
il senso ultimo delle cose

fuggo la tua morte
per avvicinarmi alla mia

tra le braccia di un presente
ai margini del giorno

(pag. 37)

Il lettore può constatare, una volta ancora, come Donatella D’Angelo abbia saputo trovare in queste pagine una nettezza espressiva e metaforica che può essere colta sia come contrappunto alle foto (la loro sovraesposizione genera un movimento perpetuo, talvolta un’inquietudine, talaltra la rappresentazione della presenza/assenza, come se le foto fossero l’altro lato della scrittura, l’universo parallelo), sia come testo a fronte delle foto (quest’ultime sono una continuazione della scrittura e in essa tornano, anche se, cronologicamente, sono nate prima, ma questo non conta, in fondo, molto se si considera che Donatella ha costruito, con ogni evidenza, un’opera unitaria, un libro che superasse i limiti dei generi artistici).
E Donatella D’Angelo deve fare i conti, come ogni poeta, con il silenzio e con il non detto:

19

allo scalpitio delle parole
preferisco l’urgenza del silenzio

e la saggezza del blu
che disegna
il contorno del non detto
così sottile tra le pieghe del viso

(pag. 41);

in effetti un’impressione che si riceve anche dalle fotografie è quella di un silenzio stracarico di significati e vibrante di variazioni.

 

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E non dimentichiamo che queste sono anche liriche d’amore:

26

eravamo soli
senza fiato
nelle curve in salita

impigliati tra le pieghe
di lunghe lingue di sale

di noi ora resta
un ultimo abbraccio

(pag. 48)

per tornare, di nuovo, all’insistito tema del silenzio:

30

cos’è il suono del silenzio
se non l’umano che si spegne

o il pianto orfano rimasto in gola
un sabato di maggio

partito per errore
con le stelle in tasca
e la valigia vuota

sulle montagne in controluce
un’immagine chiara

(pag. 52);

33

cos’è vita
se non
lo stato delle cose

un filo sottile
tra veglia e sonno

due gocce d’acqua
che nutrono il sogno

(pag. 55).

 

dal LIBRO II

38

quanto egoismo nel dolore
quanti io in una frase

albero e nido
e ospite alla mia tavola
hai spezzato il pane
oltre il perimetro delle parole

è la sostanza del gesto
la mia benedizione

(pag. 79);

anche dopo la lettura del testo numero 38 ci si rende conto di come l’autrice affronti apertamente un’altra questione tipica dello scrivere in poesia, quella dell’io che ha il suo corrispettivo speculare in ognuna delle foto in cui è Donatella stessa a comparire: scrittura e fotografia sono capaci però di allontanare ogni ripiegamento solipsistico, in quanto sanno mostrare e non permettono all’atto artistico di essere inghiottito nel gorgo dell’autobiografismo e del solipsistico sentire.
E se Memento vivere è titolo antifrastico del ben più diffuso memento mori, se Los respiros del alma è titolo perfetto per il portfolio fotografico al centro del volume, trovo nell’ultimo verso del testo seguente un mio personalissimo “titolo sostitutivo” in quanto le “scomodità del corpo” sono ciò che costituisce il tema più profondo dell’opera, intendendosi con tale espressione tutti quei momenti in cui, proprio perché la relazione col mondo passa attraverso il corpo, la mente ha coscienza dei desideri, delle mancanze, degli slanci, dei fallimenti del corpo stesso; ma questa poesia non si situa nell’alveo dell’ormai fin troppo sfruttata ed esausta “poesia del e sul corpo”, bensì il corpo è necessaria presenza sia verbale che visuale in quanto necessario punto di giunzione tra mente e mondo, tra vita e morte, tra presenza e ricordo:

42

quel fraseggio con le dita
toccandosi
è assenza e insieme memoria
un figlio nato postumo

il ricordo svanisce al suono della voce
privato di un luogo
in cui annidarsi

ci si abitua sempre
alle scomodità del corpo

(pag. 83).

Trascelgo poi due luoghi d’icastica sapienzialità e sentenziosità, passaggi del discorso poetico che è anche apprendimento esistenziale (rispettivamente dai testi numero 45 e numero 49):

(..)

devi saper leggere il fuoco
perché i tuoi occhi vedano ancora

(pag. 86);

(…)

dobbiamo tornare all’origine
per accogliere la fine

(pag. 90).

Poi, ecco la forza della semplicità espressiva, la capacità di porgere le immagini con convincente determinazione:

52

risiedo nella parte stretta
della clessidra
scossa la cenere resta la brace
un orlo di fuoco
e un buco nel lenzuolo

sottile l’inganno dei sensi
e punge l’assenza
dietro le palpebre di un sogno
che rimbalza
tra le cavità del cuore

(pag. 93).

 

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Questo libro, ch’è esperienza esistenziale ed esperienza artistica, è un atto d’amore alla vita, intrisa di dolore e di nostalgia certamente, ma forte e capace d’affermarsi appassionatamente:

53

quando scivoli sulle parole
una sutura non basta
a lenire il dolore
delle ginocchia sbucciate

ci si appassiona alla vita
e gocciola dalle labbra
nutrimento
da consumare ogni giorno

la fragilità spaventa
più della guerra

(pag. 94),

ma la presenza dell’Ombra continua a essere ineludibile e anche il testo che segue sembra ottimo commento a molte fotografie, benché (tengo a sottolinearlo ancora anche se mi è sembrato finora lapalissiano) i versi non sono affatto didascalie alle foto, non costituiscono elementi accessori, ma posseggono un valore e una dignità (davvero alta) autonomi – anzi, ci ritroviamo tra le mani e davanti allo sguardo un’articolatissima opera d’arte e ne riconosco come la sintesi poetologica nei versi che seguono:

62

non si può separare
il silenzio dal suono
e il figlio dal seno

noi siamo la schiena
che si fa eretta
l’uno Ombra dell’altra
e figli dello stesso letto

(pag. 103).

Segue un’arcata del ponte che ci conduce verso la conclusione del libro:

68

così finisce il tempo delle parole
e muta la terra
custode del seme
prospera

ed è in quel nulla
che sento la vita affiorare

(pag. 109),

quindi la seconda arcata:

69

ho percorso un solo punto
tra le radici esposte
e l’angolo del nostro respiro

su di me il peso delle congiunzioni
e l’infinita attesa della mancanza

in ogni fine
sopravvive un inizio

(pag. 110).

E qui sospendo il mio commento, è molto più giusto che sia il lettore a leggere e rileggere, a decidere, mi auguro, di acquistare il libro per averlo nella sua interezza tra le mani e davanti agli occhi.

 

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In conclusione non si dimentichi l’intensa, sensibile e bellissima introduzione di Luigi Cannillo (pagg. 11-14), né il breve e perfetto saggio sulla fotografia di Donatella D’Angelo scritto da Giovanna Gammarota (pagg. 15-17) e nemmeno la lunga nota finale, ispirata e ricchissima, a firma di Lorenzo Gattoni (pagg. 113-119); il volume è poi un ottimo esempio d’arte tipografica e di cura sensibilissima nei confronti dell’aspetto grafico e della stampa, quasi che il ridente diavoletto che aziona la pressa della macchina per stampare (riconoscibilissimo logo della Casa Editrice edizioni del Foglio clandestino di Gilberto Gavioli) mantenga la promessa di lavorare con impegno e piacere a libri preziosi da ogni punto di vista come questo.

Le foto che corredano l’articolo sono tutte di proprietà di Donatella D’Angelo e Josè Lasheras.

 

 

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