di Diego Conticello
Paolo Maccari – Firenze: Giulio Orsini: un poeta del Novecento?
Nell’anno di grazia 1903 uscivano due tra le raccolte più importanti di tutto il Novecento, ovvero Alcyone di D’Annunzio e I Canti di Castelvecchio del Pascoli. Viene pubblicata inoltre una piccola raccolta destinata a diventare un clamoroso caso letterario, forse più per l’autore che per l’effettiva bontà della stessa: si tratta di “Fra terra ed astri”, dello sconosciuto venticinquenne Giulio Orsini.
Il poeta è personaggio a dir poco schivo e ritroso, che fugge i salotti letterari dove è osannato quale rinnovatore metrico eclatante; le dame lo cercano, tutti vorrebbero anche solo stringergli la mano; viene addirittura scomodato il Giornale d’Italia, dove si indice un referendum popolare sul “Mistero del poeta”. Gli elogi si sprecano: Papini sul “Regno” scrive una recensione positiva, non accorgendosi tuttavia del rinnovamento metrico (a dire il vero piuttosto blando); Graf scomoda addirittura Shakespeare; Gozzano ne trae diverse suggestioni tuttora certificabili.
Tempo dopo sarà lo stesso autore a rivelare la propria identità: trattasi del molto più anziano Domenico Gnoli (classe 1838), stimato direttore della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele di Roma e antichista di chiara fama. Lo sconcerto è grande, la delusione senza paragoni: uno degli astri nascenti della poesia italiana si rivela un sessantacinquenne topo da biblioteca!
Quegli esuberanti toni assertivi e sfrontati, evidenti nelle pagine della raccolta, si sgonfiano come d’incanto, i critici di colpo si disinteressano al caso, relegandolo fra i clamori che si rivelano poi senza consistenza. Eppure per un certo periodo quei versi di “Apriamo i vetri” (Giace anemica la Musa… apriamo i vetri/ rinnoviamo l’aria chiusa…) fanno il giro della penisola e dappertutto si parla di un rinnovatore della tradizione.
Bisogna ammettere che il piano pubblicitario era ingegnoso, per un lungo lasso di tempo ha funzionato benissimo: lo Gnoli scriveva epistole ai più grandi letterati e accademici dell’epoca (spesso suoi amici per via della carica ricoperta), chiedendo pareri sul giovane poeta Giulio Orsini, e ricevendo in cambio opinioni disinteressate e sempre positive. Intrattiene fitta corrispondenza con dame in realtà molto più giovani di lui e una di queste, la scrittrice padovana (di origine armena) Vittoria Aganoor Pompilj, si innamora perdutamente e ne fa modello autoriale oltre che amoroso (Biagia Marniti ha di recente curato l’interessante carteggio Gnoli – Aganoor).
Come rinnovatore metrico Gnoli – Orsini appare ancora oggi sufficiente (secondo gli ultimi studi che ne fa l’ottimo Paolo Maccari, già cultore anche di Cattafi): gli accenti particolari di settenari, ottonari e novenari, derivati dallo studio del verso francese, rifuggono l’aria mediocre da canzonetta; le ipometrie e le ipermetrie fanno cadere la possibilità di ordinare i versi e di stabilire l’esatta presenza di dialefe e sinalefe per via di un computo sillabario non ortodosso.
Questo pseudo-Orsini si salva agli occhi di pochi e specializzati posteri per delle modulazioni originali impresse ai versi rispetto alla tradizione pessimistica di matrice leopardiana, alternate a fugaci sfocature riflessive dalle piegature simbolistiche e ad accese metaforizzazioni che sfociano nell’allegoria (Maccari).
Già Croce lo etichetta quale poeta <<non filosofico e dai cangiamenti superficiali>>, e tuttavia se ne occupa. I toni sprezzanti di Contini e Mengaldo ne fanno un fenomeno di poca consistenza.
Tutto ciò che rimane oggi è il ricordo sfocato di quella quartina e del caso letterario, ma Gnoli (Orsini?) non è altro che un sintomo, un indizio d’inquietudine, un uomo stanco dell’Ottocento e già in piena crisi novecentesca (con un quid di profonda e amara ironia).