Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 56) Guy Chadwick

Da qualche parte, nell’infanzia, avevo iniziato a covare un primo abbozzo dell’idea della vita. Attorno a me assistevo alle imprese di adulti in perenni ambasce che correvano a destra e a sinistra per assecondare il Grande Piano di Sviluppo dell’essere umano. Fui presto affidato a svariate baby sitter e vissi all’ombra fugace di genitori che tornavano a casa per baciare il pupo e desinare rapidamente. Tutto sembrava rispondere a questo svolgimento preciso, capace di contenere ogni gesto in un significato superiore; altrimenti -mi dicevo- a che diavolo sarebbe servito essere sempre così di fretta, sempre così sfiniti e con così poco tempo da dedicare al proprio volontario clone in carne e ossa? Tutte le risposte precise per ogni domanda che ponevo, tutta la pianificazione ora per ora e poi giorno per giorno e poi mese per mese, non potevano essere altro che inscenate in funzione di uno scopo, uno scopo che non poteva essere che qualcosa di attinente alla giustizia, all’armonico sviluppo di caratteristiche del perfetto ometto in miniatura, alla sua felicità, finanche. E così sopportavo in qualche modo l’assenza, la frastornante solitudine; ponevo l’orecchio alla porta e nel sommesso brusio del macchinario umano intuivo il rassicurante segnale che tutto procedesse secondo i piani, che il grigiore di quelle giornate lente passate a bighellonare tra giocattoli, dischi e cartoni animati sotto la sorveglianza di donnone annoiate e irascibili si sarebbe presto riconvertito in una vita piena, sana e svolta secondo i dettami della certezza. Potevano i miei genitori essersi sbagliati? Poteva in generale giustificarsi tutta quella differenza dimensionale anatomica tra loro e me se alla base non vi fosse stato qualcosa di diametralmente opposto al caso e all’errore? Che senso avrebbe avuto correggere i miei, di errori, se, opposta a essi, non vi fosse stata la Verità? Aspettavo fiducioso di crescere e partecipare da pari a pari al grande banchetto dell’età adulta. Chissà quanto interessanti e densi –pensavo- tutti gli appuntamenti, quanto gaudiosa quella meccanica obbedienza ai ritmi dell’orologio che ogni giorno me li riportava sfatti a casa per un rapido riconoscimento. Dovevo per forza stare in una botte di ferro e la televisione m’informava dell’esistenza del mondo, i programmi selezionati dai miei per me offrivano un quadro amichevole di case nella prateria e industriosa, giocosa convivialità. Sarebbe stata troppa fatica, altrimenti, perché, a guardar meglio, non è che me la passassi davvero così bene: nella mia memoria tutte quelle presenze femminili in casa non offrivano alcun segno volontario di accomodamento, anche perché -sembra- non avessi un carattere semplice. Ricordo di essere finito più volte nello stanzino al buio e di avere saltato qualche pasto, per punizione. “Casa”, inteso come concetto di ciò che è intimo fu destinato a sfuggirmi per un bel po’ di tempo ancora. I giocattoli li gettavo giù dal balcone e i cartoni potevano essere guardati per un tempo giornaliero molto limitato. Cosa restava della casa, dunque, a parte il troppo breve ricongiungimento familiare? Accenno qui la possibilità che il centro del senso d’essere stato bambino fosse nel mio piccolo mangiadischi rosso e i tanti 45 giri assortiti tra musica di papà e musica appositamente acquistata per me; e ricordo infiniti pomeriggi piovosi a guardare fuori dalla finestra, domandandomi il perché di tutta quella vita distante, in attesa di sentire la porta schiudersi alle mie spalle, cullato da melodie e parole di persone senza volto. Cercavo di ricavare risposte dai testi delle canzoni e trascinavo quella curiosità fino a sera, quando avrei potuto sfamarla. Ma il ricordo prevalente è ancora quello della mia stanza vuota, dei giochi per terra, della pioggia fuori e domande che, senza risposta, andavano a spegnersi come lampioni all’alba. C’era anche l’edificio di fronte, nella sua facciata senza balconi e finestre, calafatato superiormente da una colata di pece nera; i piccioni vi si posavano e tutti insieme guardavano attraverso la mia finestra, per suggerirmi risposte che non decifravo. Forse, semplicemente, sentivano la mia musica.

Ancora oggi, in certi momenti di sconforto e regressione, la mia vita si trasferisce emozionalmente in quella stanzetta del centro, e avrei voglia di buttare le cose giù dal balcone per non rimanere solo che con la mia musica, a occhi chiusi, davanti al demone pacificato di tutte le risposte che nessuno è riuscito a darmi. Ho trovato la risposta definitiva e la risposta è che la maggior parte delle cose non hanno spiegazione; ma così si rischia di fraintendere. Non hanno spiegazione perché la spiegazione è un semplice ospite abusivo delle cose. La ragione che sembra governare il mondo, anch’essa inesplicabile, è il frutto gonfiato a ormoni del dominio di una razza stupida ma potente su tutte le altre, e su tutte le cose. La scusa attraverso cui esercita il suo potere è proprio questo, che solo lei ha la Spiegazione del mondo e della natura, anche se non è mai riuscita pienamente a esprimerla. Ma nel dubbio estrinseca il suo potere organizzativo e distruttivo (meglio: il suo potere organizzatamente distruttivo) su ogni atomo di questo pianeta e, ça va sans dire, sulla psiche di ogni bambino che si pone domande.

guy chadwick

Ma per parlar di inezie: mi sono sempre domandato perché il disco solista di Guy Chadwick non sia considerato alla stregua delle migliori cose della band di provenienza, gli House of Love. Ad ascoltarlo si viene colpiti dalla sua magica centratezza, dalla melodia facile e felice, dall’accoratezza di un uomo che dalla copertina appare sufficientemente provato dalla vita e dall’alcool.

Ci sarebbe un’altra storia da raccontare a proposito di come venni in contatto con questo disco, una storia dei venticinque anni, dei miei vagabondaggi estivi londinesi, delle donne psicopatiche di successo che conobbi. Ma il punto è che a Londra ad Agosto piove moltissimo e un sottoscala muffoso con l’elettricità a gettone improvvisamente può iniziare a somigliare a migliaia di domande d’infanzia inevase. Così va il mondo.


In copertina: “Soft & Slow” (front cover, Guy Chadwick, 1998)

Rispondi