Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 51) The Lines

Che si faccia riferimento a elementi esterni, certamente già risaputi, è solo una convenzione, che serve a facilitare la lettura. Pigio questo tasto e viene fuori un LA: più o meno è ciò su cui basiamo la convinzione di accogliere la stessa vibrazione dell’aria nello stesso apparato uditivo con le stesse conseguenze. Il compositore fissa sulla carta segni convenzionalmente uguali che corrispondono a suoni uguali. È vero com’è vero che tutti abbiamo bisogno di cibo, com’è vero che le stesse papille sovrintendono ai medesimi gusti. Non voglio quisquiliare sulle micro-variazioni del medesimo intento. Eppure due esseri umani, sottoposti all’ascolto di Biagio Antonacci, manifesteranno sensibilità parossisticamente diverse. Quelli da questo lato del livello minimo di decenza estetica considereranno subumani quelli che, senza soverchie sovrastrutture, lo trovano profondo. Questi ultimi, come tutti, concepiranno a fatica che qualcuno possa non commuoversi nello stesso istante in cui loro si commuovono. Il gusto è totalitario. E può far paura in assenza di un pensiero astratto che assuma la differenza come sostrato comune. Ciò che io chiamo subumano (con una certa faziosa fierezza) è semplicemente un altro modo di organizzare i dati. Esiste una bellezza che per mettersi in moto non necessita di sfiorare i centri superiori del discernimento intellettuale: le basta sfregare le emozioni più immediate, dopo avere bonsaizzato le potenzialità del giudizio. La chiamiamo bellezza pur sapendola orrore: una bellezza non per noi, ma che agisce analogamente su centri nervosi più naif. C’è chi con un euro pranza, e c’è chi ci paga metà del coperto. Bisogna farsene una ragione, anche in ragione dei numeri: fissare una verità per la musica finirebbe per ritorcersi contro la musica buona (cioè quella che chiamiamo buona), e ciò in virtù della netta sperequazione che presiede la distribuzione del gusto. La musica di merda vince a mani basse. Ciò ch’è più semplice è colto dai più. Semplificazione è la falsa parola d’ordine dei nostri tempi: c’è un mondo ultraspecialistico di cui subiamo esclusivamente le conseguenze e passivamente accettiamo le dinamiche. Nel contempo vengono allestiti gadget per il pueblo ipnotico che illudono di partecipazione i consumatori. “La vita è così complicata, ma almeno la musica possiamo assorbirla senza sforzo”. Meno tempo avrai per dedicarti all’ascolto più ti sarà necessario il liofilizzato. La scomparsa del buon gusto con la conseguente proliferazione della musica di merda ha tra le sue cause non secondarie questa drammatica “sottrazione di ambiente”. E va considerata con serietà la sua retroazione sulla qualità della musica prodotta: il musicista “colto” non vive più della propria arte ed è costretto a innervarla vieppiù di zuccheri di rapida metabolizzazione. Il mercato chiede, ma ogni mercato ha le sue esigenze; nell’epoca della morte-del-tempo la domanda si concentra sulle barrette energetiche. Le discoteche, la televisione, la pubblicità, la radio, internet sono le macchinette distributrici, e non vi sono angoli della tua giornata ad esserne sprovviste. I drammi della nostra epoca si consumano nel silenzio, nell’apparente normalità dei cambiamenti “culturali”. Non ci sono più panchine, e prima ancora, non c’è più il tempo per considerare i momenti a esse dedicati come “utili”. Il concetto di utilità muta, e gli istinti assorbono le nuove impartizioni; nella gradualità del processo se ne diluisce la percezione di intenzionalità dall’alto. Il giornalista musicale oggi è sottoposto a pressioni di ogni tipo e in primo luogo proprio quella della deadline: centinaia di dischi da ascoltare, pochissimo tempo per sentire e pensare. In questo mercato un tanto al chilo, l’ascoltatore ha la possibilità o di superficializzare i propri ascolti per stare al passo con le uscite, o disamorarsi e proclamare la fine di tutto. La musica rock chiude ogni strada che sia diversa da quella del dopolavoro, in produzione, fruizione e ricezione critica. Vince solo quello che i supermercati scelgono come sottofondo e i pubblicitari come strumento emotivo per oliare la vendita di qualunque cosa.

Nessuna vita auspicabile può fare a meno del tempo. Esistono archivi immensi di tempo condensato in musica “d’arte” che restano sigillati o mandati al macero. La ricchezza di un uomo, nel 2016, fatta salva la necessità di adempiere ai propri bisogni essenziali, dovrà necessariamente misurarsi in tempo. Chi ne dispone vedrà dischiudersi davanti ai suoi occhi il più vasto campionario di musica creativa, reso disponibile dalla condivisione digitale, di tutte le epoche. È l’altra faccia dello svanimento: la riscoperta (della vita).

The Lines

L’avvento dell’epoca connettiva ha materializzato per le mie orecchie un gran numero di opere di cui in gioventù avevo solo favoleggiato o che avevo visto rifulgere esclusivamente nelle discografie di burberi collezionisti che occorreva impetrare per una cassettina che non sarebbe mai arrivata. Prendiamo il secondo e ultimo 33 giri dei Lines, “Ultramarine”, che usciva nel 1983 e mi trovava novenne a non assistere al suo rapido passaggio di cometa. Chi lo ha seppellito al tempo oggi potrà rimetterlo su paragonandolo alla musica frettolosa dei nostri giorni e trovandovi numerosi motivi di piacere. Ora che la wave ci giunge filtrata attraverso generazioni di epigoni o attraverso le opere sputtanate dei maestri venerati, un album come questo ci restituisce la fragranza obliqua d’un periodo densamente creativo e sfaccettato, cupo e ansioso, ma anche gravido di soluzioni. Il ritmo della vita submolecolare, la maestà piroclastica del disastro ambientale, ma anche la danza dissenziente delle macchine dai residui antropici vorticano in questi otto pezzi. Stavo per scrivere: minori. Ma quella in fondo è perlopiù colpa di chi non seppe concederle il credito che gli ascolti reiterati abbondantemente ripagano, magari pensando che bastasse definirli come degli A Certain Ratio più sfigati. Chissà se questi ragazzi avrebbero mai potuto pensare che il contesto che ne ingenerò il disagio e l’esclusione sarebbe potuto persino peggiorare.


In copertina: “Ultramarine” (front cover, The Lines, 1983)

Un pensiero su “Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 51) The Lines

  1. Grazie Alessandro, interessante e stimolante come al solito… Affronti argomenti scottanti… L’esperienza mi insegna che sempre più diffusamente si confondono gusto, opinione e giudizio. Come si confondono gli effetti con le cause, andando ancor più a produrre confusioni stordenti tra loro e ingenerando terrificanti cose sulle questioni valido/non valido qualitativamente (più che bello o brutto che potrebbe esser fuorviante).
    Infatti non tanto una verità (che sembra troppo assoluta come cosa, alquanto antipatica…) quanto un qualcosa che approssimi (un a mo’ di curva gaussiana) una indicazione di realtà qualitativa mediante una precisa scala di valori (che è di semplice statuizione).
    E una delle cose deve esser tenuta fuori nella oggettiva stima qualitativa è l’ambiente che ha generato quell’azione operativa (disco/brano/performance), e ancor più quel che potrebbe influenzare essa stessa, solo così si eliminano in un colpo solo filtri emotivi, politici e sociali che ovviamente non possono che contaminare un giudizio critico più possibile oggettivo (ovvero che tenga in conto solo l’oggetto cioè la musica e non i soggetti cioè chi suona e perché ecc. e chi ascolta e come ecc… Secondo me è tutto qui il nodo da sciogliere.

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