Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 46) The Green Pajamas

Ho quasi dimenticato cosa voglia dire essere vittima della noia.
Basterebbe tuttavia – come talvolta può capitare – ritrovarmi nella condizione d’esser separato da ogni fonte d’approvvigionamento intellettuale o emotivo per farla planare, come un’aquila sulla preda, sull’estensione complessiva della mia percezione del mondo.
Davanti a una televisione, per non più di dieci minuti, provo a figurarmi le strutture immaginali di chi le si rivolge, per automatismo acquisito, per molte ore al giorno. E mi vien da pensare che sarebbe sufficiente un giorno intero delle sue mefitiche emanazioni affinché una patina graveolente di nichilismo disperato s’impadronisse d’ogni mio minimo gesto.
Ben comprenderei come talvolta un individuo si svegli la mattina e a nient’altro aneli che annientare in un sol colpo il mondo intero e il consorzio umano: probabilmente egli, privato dell’esperienza autentica della vita la confonde con la sua rappresentazione più a buon mercato. La televisione, inoltre, colonizzando con le sue bieche semplificazioni i centri superiori del cervello umano a partire da età totalmente esposte, “costruisce” la realtà, la codifica nei suoi macromovimenti globali e fornisce un programma base che è la versione più sciatta e deprivata dei rapporti sociali.

Da ragazzino, viceversa, la noia era il piatto principale della mia giornata.
Inzuppato dall’alto, come biscotto nel latte, nella tazza della “realtà comunemente condivisa”, respiravo per branchie. I radi momenti di gratificazione consistevano nel breve riconoscimento nel ‘gruppo dei pari’ della mia subordinazione a ciò che, uguale per tutti, era dipinto sulle pareti del cervello, a partire dalla pedissequa esecuzione del copione che serve a un ragazzetto timido per attrarre l’attenzione d’una squinzietta sua compagna di classe. Tutto drammaticamente già codificato: esprimere dominanza, noncuranza, sprezzo, potere attraverso oggetti selezionati di riconoscimento e un aspetto esteriore più modaiolo possibile. Poche cose al mondo mi facevano sentire più condannato alla prigione eterna dell’auto-disprezzo che portare un paio di (orribili) scarpe-panzer Timberland, una felpa Best Company o una cintura El Charro. Non lo comprendevo distintamente, ma producevo – con gran forza – una reazione epidermica di allergia.
La noia era, sebbene non mi fosse ancora chiarissimo, la permanenza in quella condizione di non rispecchiamento tra me stesso e il mondo. Noia era dover indossare una pelle fasulla in un mondo dalla trama unica: non a forza, ma – più subdolamente – per non riuscire a scorgere né alcuna alternativa, né con chi condividerla. E quando il tempo della televisione finiva, restava o il fare i compiti (in vista d’una vita che mi risultava del tutto priva d’attrazione) o spegnermi in un tempo gelido senza approdi possibili, la noia appunto.
Ma niente era più noioso che essere stipato a forza sei ore al giorno all’interno di un gruppo di coetanei il cui software genetico sembrava potersi manifestare esclusivamente in attività e discorsi che eludevano con precisione ogni mio bisogno più essenziale. Credo sia stato lì che, per la prima volta, io abbia piantato le radici nell’humus della taciturnità e della defilatezza e affidato alla penna la mansione di tracciare percorsi di fuga e nuovi confini corporei.
Mi hanno salvato, prima ancora che uomini o donne viventi, nature morte di film, libri e dischi, oltre che qualche psicofarmaco ad interim.
Il mio cervello prese a frequentare bivi; i cartelli si moltiplicarono, i muscoli dello spirito si tonificarono. Pur potendo sostare ad libitum presso ogni crocicchio significativo, quel tempo perse la sua indistinta vacuità, ogni senso di costrizione e persino la sensazione di trovarmi su un tapis roulant diretto verso l’automatismo definitivo.
Presi in mano le quattro cinque idee sacre martellatemi da famiglia, scuola e televisione e iniziai, analizzandole, a sbriciolarle tra le dita. Godetti infine della mia solitudine in maniera insolita; dalla radura raggiunta fu facile considerare i miei coetanei come ostacoli non indispensabili al mio procedere. O di più: dei veri e propri intossicatori, ripetitori d’altro che ipotetici se stessi. La lusinga di un po’ di compagnia e riconoscimento basato sulla recita dell’esteriorità pubblicitaria non poteva valere il prezzo d’un soffocamento perenne. E dell’impotente noia.
Appropriarsi di codici di decodifica del mondo e di se stessi: ecco l’unico vermifugo per ciò che gli adolescenti chiamano massificazione e noi qui, anche, musica di merda.

Green Pajamas

Un manipolato medio, un adolescente prodotto in vitro nei laboratori del marketing, credendosi libero arbitro di se stesso, non esprime opinioni personali, non agisce per sé, non ama che quello che gli è stato fatto credere inevitabile: semplice vischio, pania per pesi leggeri. Impedire lo spessore: distrarre, fornire in ogni diversificata occasione lo stimolo più semplice possibile; il potere sa che verrà colto al volo. In primo luogo perché elementare (già l’embrione coglie la costanza d’un ritmo); in secondo perché la maggior parte degli altri lo coglie e fa proprio (compresa la squinzietta che vorresti sedurre). Assoltosi dallo sforzo di superare un ostacolo cognitivo, lo studente cercherà di ammorbarsi di consolazioni, di produrre azioni mirate a un “ritorno” identitario più certo e, se non potrà empatizzare con Leopardi (ch’è sempre gran disgrazia), potrà almeno cuccare in discoteca, o ottenere una motocicletta dai genitori incapaci di guadagnar in altri modi considerazione.
Il sistema complessivo dello spettacolo statuisce una premialità direttamente proporzionale alla capacità di seduzione; per sedurre un analfabeta emotivo basteranno tette e culi; per sedurre un adolescente terrorizzato dall’esclusione dal gruppo del sabato sera basterà un po’ di musica di merda. Nel frattempo li si priva di tempo, di solitudine: tra un corso di recupero, la palestra, la danza, l’inglese, la partita di calcio, il motorino, il tempo incalcolabile trascorso a sintonizzarsi sulla condivisione del nulla dei social network, le chat, youporn, la macchina fotografica digitale e vattelappesca, quella condizione è congelata fino all’età adulta. Da lì, un’ulteriore proliferazione di incombenze (il percorso universitario, il lavoro – fine di ogni possibilità aperta dell’esistenza, i figli) cristallizza la ricezione dell’essere umano sulla musica di merda, metafora della vita di merda. Ma non lo sapranno mai: questa è la vita e la vita è dura. La vita oscilla tra il dolore e la noia, e mai il vago sospetto che siano la stessa cosa.

Indian Winter

Prendiamo i Green Pajamas di Jeff Kelly: potrebbe mai annoiarsi nella vita un gruppo di persone così ostinatamente meravigliose da produrre quasi venti album di genuino pop psichedelico in trent’anni di attività, giusto per ricavarne un seguito sparutissimo di aficionados? Pur fuori da ogni moda musicale del momento? Pur mettendo su panza e perdendo voce e agilità delle dita?
E non ci annoiamo noi pochi che, nel corso degli anni, seguiamo con trepidazione quel tiepido percorso, affidandogli un importante senso d’affetto e curiosità, nonché gratificazione auricolare. Così è: c’è chi s’impicca tra gli stipiti della porta di casa per la squinzia che lo molla e chi, per tutta la vita, attende una nuova pubblicazione dei Pigiami Verdi, da Seattle, stato di Washington. Che poi è più o meno il suono di chi strimpella nel salone di casa, affinando anno dopo anno finezza e abilità, ma così lentamente da credersi egli stesso pianta in vaso. E nonostante persino il proprio scetticismo su se stessi e il mondo non poterne fare a meno, come un vulcano che inonda, o una nuvola che si svuota.

“Indian Winter” è una raccolta dei singoli e degli inediti del primo periodo creativo dei Pajamas. A tratti irresistibile, a tratti gigiona ma sempre solida, da qui la vasta discografia – tutta da scoprire – della band vi farà l’occhiolino e, implicitamente sarà come se vi chiedesse: cos’altro pensate che valga maggiormente la pena?


In copertina: “Indian Winter” (front cover, The Green Pajamas, 1997)

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