Io, Daniel Blake

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Palma d’oro a Cannes 2016 e premiato dal pubblico a Locarno, “Io, Daniel Blake” continua il percorso cinematografico dell’ottantenne Ken Loach, Leone d’oro e Orso d’oro alla carriera. Il regista britannico aggiunge un nuovo tassello al racconto orgogliosamente “contro” dell’Inghilterra post thatcheriana e post Tony Blair, negli anni del neo liberismo, scegliendo sempre il punto di vista degli ultimi. Esseri fragili, ai margini della società, come il carpentiere cardiopatico Daniel Blake e la madre di due figli Katie, povera e disperata.

Nel descrivere senza fronzoli l’odissea di chi viene giudicato dai medici non idoneo a lavorare, e nello stesso tempo valutato non meritevole del riconoscimento dell’invalidità a causa dei parametri paradossali dei cosiddetti professionisti della sanità, va messa in evidenza la cura degli aspetti formali. La regia di Ken Loach, la sceneggiatura del solito Paul Laverty, il montaggio di Jonathan Morris e la fotografia di Robbie Ryan catturano per l’eleganza mista a sobrietà, per la varietà di sfumature psicologiche e per gli elementi di adesione alla realtà.

In una struttura drammaturgica che procede con la giusta gradualità verso la tragedia, “Io, Daniel Blake” ha nei suoi dialoghi, nelle riprese in strada o nel passeggiare inquieto del protagonista, nei personaggi e nelle immagini, le peculiarità di un film che presenta un punto di vista sul mondo. Nella descrizione di un sistema contemporaneo che stritola l’individuo, si afferma un cinema che insegue una verità da cogliere nella quotidianità. Il tutto in coerenza con titoli come (tra gli altri) “Family Life”, “Riff Raff”, “Ladybird Ladybird”, “My name is Joe”, “In questo mondo libero”, “Jimmys Hall”.

 

La recitazione di Dave Johns, il protagonista, di Hayley Squires (Katie) e degli altri interpreti è frutto del lavoro accurato di regia e sceneggiatura. Così come risulta interessante l’uso delle musiche intradiegetiche e dei suoni della realtà, nella prima parte, con le musiche extradiegetiche di George Fenton solo nel finale, quando affiora un elemento lirico grazie alla presenza della figlia di Kate e per l’avvicinarsi del dramma, fino alla lettura finale in chiesa.

In generale, si afferma ancora una volta un cinema dell’essenzialità che cerca l’emozione senza barare.

In merito allo stile del regista, scrive Roy Menarini: “Se Loach ha saputo tenere alta la qualità del suo cinema è proprio in virtù di una spasmodica attenzione alla messa in scena, di un ragionamento inflessibile sui modi del racconto e dello stile, di una conoscenza puntuale della macchina-cinema e delle sue potenzialità. Non è vero che Loach sappia girare solo questo tipo di cinema. Anzi, i suoi film sono il frutto di una scelta estetica ponderata e riflessiva: è possibile affermare che ogni film di Loach è la negazione di tutte le altre possibilità con cui quella storia avrebbe potuto essere raccontata. E che ciascuna sua opera rappresenta al tempo stesso un partito preso del cinema che esclude tutti gli altri, secondo il celebre slogan di François Truffaut” (http://www.fucinemute.it/2004/08/per-un-cinema-del-reale/).

Marco Olivieri

 

Una parte della recensione è tratta dalla rubrica Visioni del settimanale 100nove Press (27 ottobre 2016).

 

Immagini tratte dalla pagina Facebook del film in italiano.

 

 

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