Le narrazioni (Sicilia) – IL BISOGNO DELL’ASSOLUTO E DI CINQUANTA LIRE, I Quaderni di Antonio Bruno/III parte

di Antonio Lanza 

Le narrazioni (Sicilia) – IL BISOGNO DELL’ASSOLUTO E DI CINQUANTA LIRE

I Quaderni di Antonio Bruno/III parte

Un colpo di scena

Un signore di non più di trent’anni viene a prendere posto a un tavolo vicino al nostro. Scosta una delle sedie senza che questa faccia il minimo rumore – forse l’avrà sollevata appena da terra, non so – e vi si accomoda con eleganza, come farebbe una piuma, se potesse. Si avvicina eccessivamente al bordo del tavolo, porta su le braccia come a liberarsi dalla stretta dei polsini della camicia, che è bianca, candidissima e larga. Lo immagino, tanto è fresco e profumato nell’abbigliamento, appena sceso da un albergo qui dei paraggi, ad Acicastello. Si direbbe un forestiero. Si arrotola entrambe le maniche con gesti rapidi, mentre la cameriera sorridendo lo saluta. Seduto a quel modo, non troppo alto di statura, solo le punte delle scarpe posate a terra, sembra un bambino nervoso a cui presto verrà servita la pappa. I capelli sono nerissimi, divisi da una scriminatura laterale. Un ciuffo gli attraversa la fronte spaziosa, incorniciando guance ben rasate, dove non faccio fatica a immaginare si sia posato poco fa il più costoso dei dopobarba, e dei tratti tutto sommato gradevoli, fanciulleschi, forse solo il naso un po’ grande, ma senza che questo possa comprometterne la complessiva impressione di armonia. Alla cameriera, che intanto gli si è avvicinata, guardandola maliziosamente da sotto in su con negli occhi una languidezza d’altri tempi, ordina un arancino, sono appena tornato da un viaggio, ieri, lunghissimo, all’estero, dice, e ne ho fitta nostalgia, l’accento è siciliano, altro che forestiero, e dice proprio così, lo sento distintamente, fitta nostalgia. La cameriera non dà segno di farci caso, sorvola, è lì per badare al sodo, è per questo che la pagano: un arancino, ok, e poi, da bere…? E un foglio di carta, gentilmente. No, no, per carità, non bevo mica il foglio di carta, sarei fin troppo originale se mi mettessi a bere un foglio di carta, le pare?, quello è perché con questa meravigliosa giornata mi è venuta voglia di scrivere due parole. Dunque, nell’ordine: un arancino, un foglio di carta, e da bere, sì, dell’acqua, l’acqua credo che vada bene, grazie!
I nostri occhi – quelli miei e di Luigi La Rosa – tornano meno indiscreti al nostro tavolo per continuare la discussione interrotta.

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Dicevamo di Parigi, del viaggio che Bruno, lasciando finalmente Milano, sta per intraprendere dopo anni di straziante lontananza dalla capitale francese, da cui manca almeno dal 1914. Sono ormai trascorsi sette anni, durante i quali ha fondato a Catania una rivista, Pickwick, che, uscita a cadenza quindicinale, con appena cinque numeri è riuscita a guadagnarsi un posto inamovibile nel panorama delle riviste d’avanguardia dell’epoca; ha collaborato alla parte finale della vita di Lacerba e della Diana di Napoli, intruppandosi poi nella cosiddetta «pattuglia azzurra» dei futuristi fiorentini riunitisi attorno all’Italia futurista, per le cui edizioni ha pubblicato il suo primo libro davvero maturo, Fuochi di bengala, uscito nel ’17 e, replicando tre anni dopo, questa volta per le edizioni marinettiane, con un libro violentemente polemico, Un poeta di provincia.
In quegli anni di favoloso esilio in patria, dal 1915 al 1920, pur in mezzo a numerosi progetti letterari intrapresi e subito dopo abbandonati, Bruno si è insomma guadagnato un nome. Adesso – siamo nel maggio del 1921 – dopo un tour che dall’inizio dell’anno lo ha portato nelle più importanti città italiane a riallacciare rapporti con le migliori menti della letteratura contemporanea – è pronto per ritornare in Francia e consolidare così la sua formazione estetica e umana. Quello che gli manca è il grande romanzo. Ma l’idea ce l’ha già in tasca e la giustificazione di questo lungo viaggio, almeno agli occhi del padre che tutto finanzia, risiede, almeno in parte, proprio nel desiderio di recuperare informazioni di prima mano per la stesura del romanzo, la cui sezione centrale, così come si è già detto, è la storia della lotta tra due casate, i Ventimiglia e i Chiaramonte, nella Sicilia trecentesca.
Il colpo di scena – perché un colpo di scena è d’obbligo in una narrazione come questa – è che Bruno, per quell’anno, dovrà fare a meno ancora una volta di Parigi. Nonostante sia prospettato come imminente nell’ultima lettera a De Roberto («Partirò per Parigi lunedì»), il viaggio insomma non si fece. Cosa successe all’ultimo momento?
La risposta è contenuta in un racconto autobiografico di Bruno, pubblicato nel 1926 su Il Tevere di Telesio Interlandi e intitolato Thea: «A Milano, il mio viaggio cessò. Mio padre mi aveva fornito in quattro mesi, quattordici mila lire e non poteva per il momento, darmi altro denaro. Ritornai in Sicilia, con la ferma intenzione di ripartire presto direttamente per Parigi».
Notando en passant come già dal ’21 comincino ad affiorare le prime avvisaglie di quella crisi finanziaria che porterà i Bruno, nel breve volgere di qualche anno, alla più completa rovina, sappiamo per certo che la seconda metà di quell’anno Bruno la trascorre a Catania.
Le informazioni su quel che gli accade nella città etnea le dobbiamo proprio a questo racconto, Thea, in cui, mutati solo i nomi degli interessati, è ingenuamente adombrata la storia del deteriorarsi del suo rapporto con De Roberto a causa dell’infelice richiesta di matrimonio fatta alla nipote Nennella. A sancire la definitiva defenestrazione di Bruno e la conseguente rottura tra i due scrittori, un biglietto da visita dell’autore dei Viceré recapitato brevi manu a Bruno in via Maddem, nel quartiere di San Berillo: «F. De Roberto è molto dolente d’esser costretto a confermare quanto già scrisse».
Incassato il rifiuto, ma ottenuti dal padre i soldi per partire, a inizio gennaio del 1922 Bruno può ricongiungersi finalmente alla sua città elettiva, Parigi, dove rimarrà fino all’agosto dell’anno successivo.

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«Carissimo signor Bruno…». Parigi attraverso le lettere di Francesco Guglielmino

Più è lontano da casa, Bruno, e meno lascia traccia di sé nella scrittura. L’inseguimento del suo mistero si sposta adesso a Parigi. Del 1922 non rimane traccia alcuna nei Quaderni. Le informazioni utili per ricostruire quel suo primo anno parigino le traiamo dalle cinque lettere di Francesco Guglielmino, che coprono un arco temporale di nove mesi, da gennaio a settembre, e da pochissimo altro materiale, per lo più di natura epistolare.
Francesco Guglielmino era nel 1922 un cinquantenne professore di latino e greco che aveva formato negli anni un’intera generazione di intellettuali catanesi e che era amato e stimato da tutti, dai più anziani Verga e De Roberto; fino a Brancati e allo stesso Bruno, che furono entrambi, in anni diversi, suoi alunni. Proprio quell’anno esce un volume di sue poesie in dialetto siciliano intitolato Ciuri di strata. Un singolare filo unisce, tramite questo libro di versi, tre grandi scrittori siciliani che, in tre distinte edizioni, ebbero il privilegio di prefarlo: De Roberto (Battiato, Catania, 1922), Brancati (pro Centro di studi cristiani, Catania, 1948) e Sciascia (Sellerio, Palermo; volume uscito postumo nel 1978 contenente anche le due note introduttive precedenti). Definito da Brancati «l’unico poeta romantico della letteratura dialettale», Guglielmino era davvero, così come appare evidente dalla lettura del magro epistolario con Bruno, «educato dalla Cortesia, dalla Poesia, dal Rispetto per gli altri, dalla Serenità di giudizio».

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«Ho fiducia» gli scrive Guglielmino nella prima delle lettere, in risposta a una di Bruno che lo informava di essere a Parigi, «che lei avrà modo di mettere in valore il suo ingegno e la sua cultura; e lei sa quanto io apprezzi l’una e l’altra»; e, dopo aver mandato i suoi saluti ad altri siciliani espatriati (al giovanissimo Antonio Aniante, tra gli altri), nell’amorevole tentativo di riappacificare gli animi dopo le polemiche successive alla pubblicazione del Poeta di provincia in cui, ricordiamolo, Bruno polemizzava con Giuseppe Villaroel, nel post scriptum racconta: «Mi fa piacere dirle che parecchie sere fa tra un gruppo d’amici Villaroel, parlando di lei in birreria, ebbe espressioni improntate a molta stima. È la pura verità e ciò mi è piaciuto per molti rispetti».
Attraverso la seconda lettera di Guglielmino, datata dieci febbraio, apprendiamo, oltre alla notizia che Bruno alloggia presso l’Hotel Friedland (centralissimo, a cinquecento metri dagli Champs-Elysées), anche alcuni particolari sulla morte di Verga avvenuta alla fine del mese precedente: «C’erano parecchi segni che dimostravano che il grande maestro stava male, ma lo si vedeva per le vie ed il passo era ancora svelto ed il sorriso sempre arguto […]. I funerali sarebbero stati memorabili ma guastò tutto la pioggia; i giovani universitari ad ogni modo ammirevolmente portarono a spalla la salma fino a porta Garibaldi dove li pregammo di desistere perché erano stanchissimi e fradici di pioggia. […] Il suo telegramma l’ho fatto pubblicare dal “Corriere”».
Lo scrittore catanese appare ben inserito nell’ambiente letterario parigino. Frequenta il salotto di madame Aurel Mortier, che ebbe ospiti illustri, come Gide, Colette e, tra gli italiani, Alberto Viviani; e vi si distingue per essere «un assai felice parlatore».

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Intanto però da Biancavilla gli giunge una lettera del padre, angosciosissima pur nella consueta dolcezza che impronta da sempre i loro rapporti.
In essa, il padre si scusa del ritardo con cui risponde a una precedente lettera del figlio risalente al mese prima: «molte circostanze sulle quali è inutile intrattenerti, ma più di tutto la depressione del mio morale causata dal dubbio di trovare il denaro per spedirtelo mi hanno trattenuto finora causandomi un lavorio logorante del mio cervello ed un senso penosissimo di dolore», e continua: «Un po’ di serenità è tornata in me lunedì scorso quando finalmente mi fu dato di potere andare al Banco di Roma e versare le lire duemila per essere spedite a te a Parigi».
Il poeta futurista catanese insomma non è economicamente sereno, è ossessionato da quello che si dice a Catania dei Bruno e della loro situazione economica; il padre gli spedisce i soldi non più con la consueta puntualità, e la salute è malferma, i disturbi psichici che lo hanno da sempre attanagliato si acuiscono.
Ancora da Guglielmino, apprendiamo del ritorno di Antonio Bruno alla fede e della decisione di trovarsi a Parigi un impiego: «Creda, Bruno, questa è anche cosa che ci rialza nella stima di noi stessi […]. E per lei vissuto forse finora nelle mollezze che consentono gli agi, sarà anche efficace lezione a considerare il valore del denaro o a temprarsi l’animo con qualche piccola difficoltà. […] Quanto a ciò che le ha riferito il sig. Moncada su quel che si dice a Catania a suo riguardo, io non posso né confermare, né smentire. […] Ad ogni modo tutto ciò non può scalfirla, e se lei o papà suo hanno sciupato, hanno consumato per Dio la roba propria non quella degli altri».
A questo punto, il tonfo di un pugno calato con stizza sul tavolo accanto al nostro ci fa sobbalzare. Persino in quella spelonca di professorini che è la Birreria Svizzera, grida l’uomo in camicia bianca all’indirizzo della cameriera, se chiedi un misero foglio di carta, l’ottieni, e anche in tempi ragionevoli. Appena tornato da Parigi, mi fate già il miracolo di rimpiangere Catania, ecco cosa fate! La cameriera adesso è frastornata, si profonda in mille scuse, per un attimo si volta verso di noi quasi a chiedere soccorso; e allora lo sguardo dell’uomo che da languido si è fatto ora acceso, seguendo la traiettoria di quello della cameriera, si imbatte nel nostro, direi meglio impatta con il nostro, sconcertato. Magari i signori, qui, fa la cameriera, possono aiutarla.

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Antonio Bruno nacque a Biancavilla (CT) il 20 novembre del 1891 e morì suicida in una camera dell’albergo Italia, a Catania, all’età di 41 anni. È autore di due libri di poesie, More di macchia (1913) e Fuochi di bengala (1917), di due saggi Come amò e non fu riamato Giacomo Leopardi (1913) e Un poeta di provincia (1920) e un romanzo epistolare 50 lettere d’amore alla signorina Dolly Ferretti (1928). Nel 1915 fondò e diresse a Catania il quindicinale Pickwick, uno dei migliori esempi di rivista di avanguardia, ben recensita da Lacerba e La Voce. Suoi scritti comparvero su Lacerba, La Diana, l’Italia futurista e Il Tevere. Tradusse Baudelaire. Postuma uscì la sua traduzione de Il Corvo di Poe.
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