Appunti a margine: Nicola Romano – Voragini e appigli

di  Diego Conticello

Si inaugura con questo post una rubrica di critica su alcuni libri di poeti contemporanei (che siano nuove proposte, esordi o autori più o meno affermati), le cui produzioni sono spesso messe ai “margini” sia dalla critica ufficiale che, di conseguenza, dalla geografia anche fisica delle mappe pseudo- letterarie quanto psuedo-editoriali (ma sarebbe forse più corretto dire per i più “tipografie a pagamento” queste si “facenti margine”) che, oggi più che mai, infestano l’etere italico. Ho voluto dare sin dal titolo un taglio “agile” ma che cerchi di conservare un’obiettività di fondo per mezzo di giudizi schietti (appunti) che abbiano anche il coraggio di scovare possibili limiti, sebbene nel valorizzare sempre i raggiunti approdi.
Inizio da Nicola Romano, poeta e giornalista palermitano di lungo corso, la cui produzione è rimasta troppo spesso ingabbiata nelle secche della marginalità isolana senza avere avuto, se non di rado, la ventura di essere stata registrata al di fuori degli spazi già risibili della cronaca poetica nazionale.
Il suo ultimo volumetto (Voragini e appigli. Pungitopo, Marina di Patti 2016 pp. 60 € 10 con prefazione di Giorgio Linguaglossa) si distingue per la musicalità e la compattezza del dettato, strutturato per settenari ricorrenti all’anastrofe e all’allitterazione calibrata quali cifre costituenti il ritmo incalzante.
Ogni componimento prende abbrivio da una citazione da un modello o maestro letterario di riferimento – e ne troviamo davvero di semi-scomparsi dalle suddette mappe ufficiali (da Lucio Piccolo a Giorgio Vigolo, da Bigongiari a Scialoja o Carrieri con una spiccata prevalenza di un ancor più dimenticato meridione). Ed è ogni volta proprio la citazione in esergo ad ispirare argomento e dettato dell’autore che affronta in queste pagine quasi una camaleontica cavalcata di temi, stilemi e semiosi tuttavia interamente ben coese all’insegna del ritmo calzante del settenario che ne delinea i contorni come un bordone musicale sempre presente all’interno di arie, fughe, contrappunti, requiem e recitativi.

Senza ardimento
bascula la sera
ed è tormento d’occhi
di scapole ed aorte
se tutto non esiste
nell’aporia snellente
che rimanda i pensieri
all’umido ristagno
di iris e ninfee

La cifra allocutiva tende invece a ripiegare verso un “noi” assai ristretto che procede dall’esplicitazione di un soliloquio alla descrizione di affetti familiari

[…] quando incombe l’ora
di quel prossimo mio
come me stesso
che con mani feroci
cava il bene dagli occhi
e tracotante spazza
l’integrità e la pace

si spappola il precordio
tracollo in un deliquio
e non ho più par…

e ancora:

Non sarai di nessuno
non dell’antico padre
e nemmeno dei figli
verdi ma già remoti
Non sarai delle stelle
sparse troppo lontano
e neanche del mare
che t’assesta sul molo
fingendo panorami
Non sarai della gente
non sa scrutare dentro
distratta si compiace
del nulla che l’assorbe

sino a giungere, soprattutto nella seconda parte, ad un incedere per brevi ma intensissime invettive civili.

Come d’un formicaio
salgono avvocatini
ed attaché discendono
avanzano i soloni
carichi di dottrina
e prìncipi del foro
con nere toghe al braccio
mezze maniche arrancano
nell’alto dei ripiani
e cartigli sospinti
come frutta ai mercati
E’ una torma che spia
rivalse e contenzioni
ragioni da inventare
tra plausi e sgomenti
ma tutto resta incerto
affidando al rouge ou noir
i litigi del mondo

Talvolta, ed è qui uno dei punti dolenti della raccolta per fortuna smorzato dalla centellinata frequenza, il dettato deborda su un iperbarocco delle forme che finiscono per sdilinquirsi in cantilene-filastrocche non-sense o – nella migliore delle occorrenze – in versi di eccessiva pomposità che, peraltro, poco si addice all’andamento per sua natura limpido del settenario. Nei versi che seguono si assiste ad esempio ad un eccesso che tende quasi a “dimostrare” troppo sfacciatamente, ad esibire inutilmente una tecnica come a richiedere o peggio ad autocertificare un’ipotetica approvazione di un pubblico colto, finendo per affondare in giochi fonici sterili:

Sara
sarò sereno a sera
se rasa non sarà la rosa rossa
che resse quei sorrisi nella serra
(rime di raso rese ad un rosaio)
Sarà una rissa seria
recisa se sarà la rosa rara
resta il sussurro arso dell’arresa
come quel sorso salso nell’arsura

E si noti che la caduta è realmente ascrivibile a un tonfo sonoro se pensiamo invece a quanto sia di rara bellezza la chiusa che, seppur con più attenuati manierismi, non trabocca e non scade a mero esercizio fonico-lessicale come invece il resto del componimento.
Notevolmente di livello più convincente invece quando Romano utilizza il medium del simbolo – e si noti come dalla forma di cantilena passi a quella medievale dell’indovinello – come in questa poesia che tanto prende le mosse dal Cattafi dei “Segni” nella metafora a contrasto del foglio che, anche se sottile e flessibile, sorregge la pesantezza della vita che viene “tracciata” attraverso la scrittura proprio per eluderne il vuoto che affiora (non a caso è assai calzante la citazione in esergo di Nelo Risi che vale la pena riportare: “Ai primi sintomi di vuoto corriamo/ a metterci in cura di parole”):

E’ di corpo sottile
senz’ossa o nervature
lieve come fuscello
anemico e slombato
eppure porta carichi
grandi come le pene
che compluviano a valle
rigandone i dorsali
regge i segni e le tracce
di sbuffi addolorati
sa custodire al buio
dei grumi di memorie
pesanti come marmi
e talvolta s’intride
con accenti di lacrime
il foglio

Costruita in modo assai equilibrato con una lunghissima anastrofe che inserisce in chiusa la soluzione all’allegoria continuata questa poesia si pone all’apice della raccolta e ne fa certamente un esempio di modulata ed efficace impalcatura formale ed, insieme, contenutistica.
La seconda parte invece contempla la forma ancora più essenziale dell’haiku, a testimonianza della certezza di efficacia stilistica direttamente proporzionale all’asciuttezza delle forme:

Come un residuo
miscela di migranti
sversata a mare

E’ proprio in questo minimalismo civile a mio avviso che Nicola Romaniìo raggiunge gli esiti più iconici-icastici della sua produzione.

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