I versi di Joy Harjo, potente voce della tribù dei Creek – di Laura Di Corcia

di Laura Di Corcia

Non si entra in punta di piedi nella poesia di Joy Harjo, voce potente della poesia americana che lo scorso febbraio è stata ospite a Roma di un’interessante rassegna sulla poesia contemporanea, “Ritratti di poesia”, curata da Vincenzo Mascolo. La poetessa, appartenente alla tribù indiana dei Creek andata incontro a devastazioni e sofferenze inflittegli dai bianchi, letteralmente trascina il lettore in un universo a spirale, dove la guerra e l’amore, l’orrore e la sua rivisitazione in chiave onirico-favolistica spingono verso un altrove che però torna prepotentemente nel qui e ora, rivelando che l’immanenza non è l’unica chiave di lettura possibile, che esiste altro e che quest’altro è in fondo una presenza in absentia. Così, nelle pagine di “Con furia d’amore e in guerra”, pubblicate dalla casa editrice QuattroVenti con la cura di Laura Coltelli, si viene catapultati in una terra di nessuno, nelle desolate lande americane teatro di vite spezzate e di efferatezze imperdonabili: ma la ferita, quella di un popolo che non ha più nessun mezzo per suturare le umiliazioni e il dolore, non dà vita come potremmo pensare a un universo spaccato a metà, disgiunto. C’è qualcosa che può ricucire ciò che è stato dilaniato, ed è proprio la cultura tribale, ricca com’è di racconti e leggende ispirate alla natura e agli animali, imperniata sul concetto del tutt’uno. Grazie a queste favole, grazie alla presenza di bisonti, cervi e animali connotati di una valenza salvifica che camminano quasi al di sopra dei testi, come presenze mute di un destino crudele e allo stesso tempo ineluttabile, è possibile aprire “un varco in una stagione di false mezzanotti”, o continuare a insistere sulla strada dell’ “epica ricerca della grazia” nonostante si sia costretti a scivolare “per campi di fantasmi”, brancolando “in un inverno di ricordi espatriati”. Ma non tutto è perduto, dal momento che “c’è qualcosa di più vasto della memoria / di un popolo espatriato”. In fondo tutta la raccolta è riassunta nel terzo testo della raccolta (il più forte), intitolato “Danzatrice del cervo”: lì una donna bellissima entra in un bar dove siedono senza parole “gli irriducibili”, i reduci. La sua energia centrifuga, la sua furia sarà per alcuni superstiti un sogno, per altri uno schiaffo: nessuno potrà resisterle e nessuno potrà proferir parola, perché “in questa lingua non ci sono parole per spiegare come il mondo reale / si frantuma”. Immagini potenti, stratificate, rese ancora più plastiche dal verso lungo, stigma della poesia americana a partire da Walt Withman (in Italia ha raccolto la lezione il Cesare Pavese di Lavorare stanca), capace di accogliere nel suo ampio ventre una realtà scissa anche nelle sue coordinate spazio-temporali. Il tempo verbale più utilizzato in questa prima parte, non a caso, è il passato remoto; scrive la poetessa: “Spesso cambio i tempi in una poesia e lo faccio sapendo quel che faccio. Non accade per caso. Il tempo non opera realisticamente in modo lineare”. Leggere Joy Harjo significa uscire dalla linearità del tempo, scardinare la logica della causa-effetto per entrare in un tempo altro, quello del rito, quello in cui il futuro non è altro che una proiezione del passato. “Il modo in cui ricordo, considerando la natura stessa della parola, è in relazione con l’andare indietro” – dichiara la poetessa in occasione di un’intervista. “Ma la sento anche in un altro modo. La sento come un divenire, non solo l’andare indietro, ma il divenire ora, e anche gli accadimenti futuri… La memoria è una grande forza viva che plasma il futuro”. Se è vero che “il passato e il futuro sono lo stesso tiro alla fune”, allora la sua vita quotidiana, quel piccolo spazio di tranquillità mai al riparo dagli scossoni dell’amore non corrisposto, è ancora il tempo dell’odio, ma di un odio che sa riconvertirsi in benevolenza. La seconda parte della raccolta, “Furia d’amore”, è un tentativo di andare oltre, di investigare nuove strade. Ha ragione Laura Coltelli, nella prefazione, quando scrive che il suo percorso “è quello del superamento di altre barriere, che fa della poesia di Joy Harjo una poesia di metamorfosi e volontà di trasformazione, con tutte le forze vitali tese al rinnovamento”. Non resta che sperare che tutte le sue poesie, che oltreoceano hanno ricevuto riconoscimenti prestigiosi (e meritatissimi), siano presto tradotte in italiano.

Rispondi