UN PICCIONE SEDUTO SU UN RAMO RIFLETTE SULL’ESISTENZA – di Roy Andersson

Ad agosto Carteggi Letterari si prende una pausa e sospende la programmazione ordinaria. Riproporremo post apparsi nel secondo anno di attività. L’ultimo film di Roy Andersson nella lettura illuminante di Francesco Torre (pubblicato il 27 febbraio 2015).


UN PICCIONE SEDUTO SU UN RAMO RIFLETTE SULL’ESISTENZA

Regia di Roy Andersson. Con Holger Andersson (Jonathan), Nisse Vestblom (Sam).
Svezia 2014, 100’.
Distribuzione: Lucky Red.


Per i cinefili insonni di Fuori Orario il cinema di Roy Andersson non è una novità. La sua filmografia, iniziata negli anni ’70 sulla scia dell’infatuazione per la nouvelle vague cecoslovacca e poi proseguita tra spot pubblicitari e cortometraggi fino alla Trilogia sull’essere un essere umano, è periodicamente oggetto di visioni notturne su Rai3, in blocchi monografici e miscellanee dai titoli Il silenzio della parola, la vita non vive, Miraggi (e)viraggi, Le impossibili favole di Roy Andersson.
Per il pubblico medio italiano, però, il vincitore dell’ultimo Leone d’Oro – per la prima volta distribuito in sala su larga scala – è un perfetto sconosciuto il cui film, subito etichettato dalle critiche veneziane come bizzarro e anarchico, estremo e provocatorio ma in fondo divertente nella sua forma epigrammatica, apre una finestra su un cinema sotterraneo e misterioso, colto e allegorico, ma soprattutto troppo poco stratificato per permettere una lettura che non richieda uno sforzo e una complicità non comuni.
Andersson, d’altra parte, mette in chiaro prassi e obiettivi del proprio modo di intendere il cinema sin dalle prime battute del film: camera fissa, inquadratura frontale, abolizione del primo piano, profondità di campo sono gli elementi principali di un linguaggio in apparenza elementare – poiché rinuncia al principio motore dell’estetica cinematografica tramandata dalla classicità, il montaggio, a favore di una rappresentazione che procede per tableaux vivants – ma che abbraccia al suo interno in un continuo gioco di specchi strumenti di rappresentazione e messa in scena tipici di altri mezzi di espressione artistica come il teatro, la pittura, il fumetto. Non sorprende, quindi, che lo stesso regista abbia citato come propri punti di riferimento estetici Bruegel il Vecchio (da un suo dipinto, I Cacciatori nella neve, l’immagine dei piccioni poggiati su un ramo che osservano l’inutile affanno del genere umano), la scuola della Neue Sachlichkeit di Georg Scholz e Otto Dix, ma anche Samuel Beckett e Stanlio e Ollio.
Quanto poi ai contenuti, basterebbe considerare i tre “incontri con la morte”, che seguono al prologo e preparano all’incontro con i tanti personaggi ricorrenti del film, per comprendere il campo semantico della ricerca poetica di Andersson, che sfrutta strumenti retorici raffinati e tonalità espressive come l’allegoria, il paradosso e l’umorismo al fine di un’indagine a tesi sulla fenomenologia dell’essere umano. Con sguardo deformante, infatti, il film ci presenta tre quadretti amorali in cui si mette in scena la fragilità della natura umana (un uomo muore di infarto, nel cuore del focolare domestico, nel tentativo di stappare una bottiglia di vino), i suoi primordiali e imperituri istinti individualistici (l’avidità di una vecchietta che preferisce morire avvinghiata alla sua borsa piuttosto che concedere i pochi averi ai figli, peraltro del tutto insensibili di fronte all’evento luttuoso), l’atavica indifferenza di fronte al prossimo (in un ristorante un uomo muore dopo aver ordinato il pranzo e la discussione cade su: chi mangerà quello che ha comprato?).
I 35 piani-sequenza che seguono rispondono al medesimo schema formale e retorico. Ma se all’inizio il gusto per la risata viene preservato proprio per la mancanza di un rapporto di causa e conseguenza tra gli eventi e per la bidimensionalità degli stralunati personaggi coinvolti, pure tra un quadro e l’altro, e talvolta all’interno della stessa inquadratura tramite un uso narrativo della profondità di campo (nel contrasto cioè tra ciò che accade nel primo piano e ciò che succede sullo sfondo), il sorriso può trasformarsi in un ghigno, in un’espressione di fastidio, e verso il finale del film persino in una maschera di orrore.
Seguendo i movimenti di Sam e Jonathan, due venditori di scherzi di Carnevale, legati da un’esigenza di combattere la solitudine più che da vera amicizia, il film ci trascina negli ambienti più consueti di una tranquilla cittadina occidentale, scenario dai contorni invisibili ma sul cui sfondo è possibile intravedere macerie di una periferia devastata dalla cementificazione più selvaggia. Un salone da barba, un’osteria, una pensione, un bar. Luoghi dove possono deflagrare gli istinti di vita e di morte, l’eros, piccole e grandi miserie e meschinità, ma anche simboliche tappe di un lineare percorso verso la consapevolezza dei limiti della natura umana. «Per tutta la vita sono stato tirchio, non generoso, ed è per questo che sono infelice», esclama un signore all’osteria, e sembra di leggere uno degli epitaffi dell’Antologia di Spoon River. «E’ giusto servirsi delle persone soltanto per il proprio piacere?», si chiede Jonathan dopo aver sfiorato in sogno il proprio abisso morale.
Pessimista ma non misantropo, l’autore crea un impianto drammaturgico rarefatto ma estremamente curato, a tratti pedante, dove l’amore non ha rappresentanza. Non così però la bellezza, che misteriosamente riesce a riaffiorare, tra un quadro e l’altro, nel carpe diem di interstizi fugaci (bambine che giocano nel balcone di casa, amanti abbracciati su una spiaggia), forse piuttosto banali ma pieni di vita pulsante.
Nel vagabondare picaresco dei due protagonisti, però, i confini spazio-temporali della messa in scena vengono presto infranti con esiti tragicomici, e l’allegoria assume contorni che rimandano più direttamente alle apocalittiche raffigurazioni bruegeliane (pensiamo, per esempio, al Trionfo della morte).
Succede quando, alla ricerca di un creditore, la coppia approda in un bar dove, nel giro di pochi secondi, irromperà direttamente dal diciottesimo secolo Re Carlo XII di Svezia con tutta la sua fanteria, in procinto di partire per la disastrosa campagna di Russia. La violenza con cui i soldati allontanano le donne dal locale (immagine degna di un nuovo Medio Evo post-industriale) dovrebbe scatenare reazioni rabbiose e scatti di orgoglio, ma di fronte all’ordine costituito nessuno osa opporsi. Istinto di sopravvivenza o ignobile complicità? La barriera tra i due termini è sottile e già sappiamo che prima o poi il film la supererà. Quando? Nei due capitoli preannunciati dal cartello “homo sapiens”, che esplicitano al di là di ogni infingimento retorico quello che sembra un pilastro della poetica di Andersson, ovvero l’illusorietà del percorso evolutivo umano. Il primo quadro in questione mostra un medico che parla amabilmente al telefono di argomenti personali mentre a pochi centimetri una scimmia viene sottoposta ad un trattamento di elettroshock. Il secondo, presentato al pubblico come un incubo, vede il personaggio di Jonathan raffigurato come un cameriere di ricchi anziani, spettatori (e forse anche promotori?) di un brutale sterminio di uomini di pelle nera tramite la messa in funzione di una macchina infernale che ruota su delle braci ardenti. Lo spettacolo è degradante, umiliante, moralmente inaccettabile, sia per Jonathan, la cui parabola lascia intravedere – ma assai in controluce – un’improbabile catarsi, sia per il pubblico, inglobato come parte integrante dell’affresco. Il senso di colpa, però, è presto destinato a scomparire. Come in un’eterna palingenesi, infatti, tutto si ripropone inesorabilmente uguale a se stesso. «E così è di nuovo mercoledì», annunciano infatti nuovi personaggi nell’ultima sequenza.

La citazione: “Aveva un sasso nella scarpa. E’ stato bello quando se l’è tolto” (con riferimento a Lars Von Trier: «Un film dovrebbe essere come un sassolino nella scarpa»).

Foto di copertina: Roy Andersson (durante le riprese).

Francesco Torre

3 pensieri su “UN PICCIONE SEDUTO SU UN RAMO RIFLETTE SULL’ESISTENZA – di Roy Andersson

  1. Film oggettivamente impresentabile, che comunque offre dei gustosi momenti cinematografici e belle citazioni. Ma francamente un film senza capo né cosa, e direi presuntuoso.