La luce del tempo di Roberto Deidier in "Solstizio"

Ad agosto Carteggi Letterari si prende una pausa e sospende la programmazione ordinaria. Riproporremo post apparsi nel secondo anno di attività. Cinzia Accetta recensisce “Solstizio” di Roberto Deidier (pubblicato il 26 gennaio 2015).


 

“Solstizio“ è il nuovo libro di poesie di Roberto Deidier, pubblicato nella collana Lo Specchio Mondadori il 17 giugno 2014.

Un volto senza occhi come un buco nero guarda avanti nella luce del tempo in un mattino di sole. È il sole che compie il suo moto apparente nell’orbita terrestre scandendo l’esistenza altalenante tra il minimo e il culmine del suo splendore. I versi si fanno allegoria della realtà che oscilla tra la notte più lunga e scura e il punto di elevazione massima rispetto all’orizzonte circolare di un tempo ciclico.

“Pensavo di non avere più memoria / Come un peso invisibile sul collo” dice il poeta rievocando le radici parentali che confluiscono, in una sezione del libro, nei temi biblici di un ritorno alle origini, pilastri fondanti la ricerca di equilibrio dell’umanità tutta. Ricerca che si snoda tra la verità esperibile dei luoghi e del creato e l’inganno dei sensi che rendono solo una parte soggettiva e mutevole dell’esperienza stessa del vivere.

Il poeta oscilla come il trapezista kafkiano tra la salvezza e il baratro. “Non capivo quanto fosse difficile/ Quell’arte di giocare con le altezze,/ Di passare da un vuoto a un altro vuoto/ E farne corpo, fasci, movimento”. E il libro è dominato da queste coppie antinomiche che animano il cammino verso la maturità e la conoscenza attraverso la poesia. Luce/buio, Vero/Falso, Notte/Giorno, Inizio/Fine, Andare/Tornare sono solo alcuni degli spunti di riflessioni che stimolano il lettore ad una introspezione personale e metafisica.

“ Per te m’inventerei un alfabeto,/ Ma arriva solo un suono di sirena./ M’accosto al legno scuro, nell’occhiello/

Ti chiedo a voce bassa di tornare”.

Deidier è poeta dei luoghi reali, amati e sofferti: città, case e piazze, interiorizzati quando “un silenzio si sente e non è mio”. Pietre che accompagnano il lettore sulle tracce del passaggio di un’esistenza piena, in corsa senza risparmiare fiato o rimpianti.

Ogni volta che Antigone parla
Una freccia precisa mi apre
Un meridiano nel cuore, lo spartisce
Tra obbedienza e libertà.
Non so più chi accompagnare.
La parte di me che resta
O quella sul punto di andare.

Così sospesi, come in un giorno
Di vacanza, in attesa del dolore
Che svuota la testa,
La calma finta dopo una tempesta.

*

Come avrebbe potuto non voltarsi…
In sogno erano apparse le valigie
dei morti, lasciate in qualche stazione:
quelle dei vivi le aveva pensate
come un’improbabile carovana
confusa nella sabbia infinita,
in cammino verso un’altra città.

Non ci sarebbero stati più vivi,
neppure lui rivolto alla rovina:
scrutare nel presente era lo stesso
che fissare in faccia la distruzione.
Si era fermato, lo sguardo all’indietro,
il passo avanti verso l’orizzonte,
un’istantanea senza redenzione.

*

Ogni confine ha alle spalle un confine
ogni passato declina il futuro.
Una valigia appena chiusa, una maniglia
girata. Gesti cresciuti come ricordi
in una disarmante felicità.

*

Guardo i passi dei cirri, i filari
bianchi tra le scie di kerosene
mentre cade il muro del suono.
Vento terso, sabbia tra i piedi
scalzi fuori stagione. Oscilla
l’apparecchio all’atterraggio.
Ed è là che mi piace pensarti.
Gracchia una persiana, si riapre
una casa all’ammezzato. È marzo
e tu non sai questo ritorno.

*

La casa

Il sole scende dietro i piatti sporchi.
Il lavandino è un porto di liquami.
E nella penombra nuova
L’occhio inventa le sagome
Di chi un tempo è passato in queste stanze.

Sono stata spesso ostile ai miei inquilini.
Mi sono aperta di crepe
Come fossi la faccia della morte.
Ho lasciato che le luci si spegnessero
Senza riaccendersi. I letti erano freddi
E al mattino nascondevo tutta l’acqua.

L’agente illustra i pregi,
Ampiezza metratura posizione.
Prezzo accomodante, eppure avverto
Arrendevolezze inospitali,
La fatica che costa appartenere.

Questa casa, sono stato questa casa.
Un tempo, una volta, una vita.

*

Una notte informale

Pensavo di non avere più memoria,
Come un peso invisibile sul collo.
Apparsi da uno sfondo senza tempo
Mio padre e mia madre sono chiusi
In una vettura rossa.
Dietro gli anabbaglianti
Riconosco a malapena i loro sguardi,
Sul parabrezza
Si riflette la luce dei lampioni.
Ma non possono essere altri:
Le labbra mimano la disperazione
A lungo custodita al posto loro.
Le mie vene sono le strade percorse
Da quell’auto.
Li ho sentiti sbandare nel mio corpo
Quante volte, come un’agonia.


Roberto Deidier nasce a Roma il 31 agosto 1965.
Dopo gli studi liceali si iscrive alla facoltà di Lettere dell’università «La Sapienza», dove si laurea nel 1991. Nella stessa università consegue, nel 1997, il Dottorato di Ricerca in Italianistica.
Il suo esordio poetico avviene nel 1989, sulla rivista «Tempo presente»: alcune sue poesie sono presentate da Elio Pecora, con cui instaura un lungo sodalizio affettivo e letterario. Nell’autunno di quell’anno, con gli amici Marina Guglielmi e Fabrizio Bolaffio, inizia a pubblicare un piccolo quaderno di poesia, «Trame»: il titolo è suggerito da Amelia Rosselli, prima lettrice delle poesie di Deidier e prima collaboratrice della nuova rivista, che prosegue fino al 1996.
Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta Deidier frequenta gli ambienti letterari tra Roma e Milano, legandosi in amicizia con alcuni scrittori e poeti, come Elsa de’ Giorgi, Francesca Sanvitale, Dario Bellezza, Biancamaria Frabotta, Valerio Magrelli, Renzo Paris, Valentino Zeichen, Antonio Riccardi. Nel 1992, a Macerata, in un convegno sulla nuova poesia, incontra Gianni D’Elia e Maurizio Marotta; nel 1994 è invitato da Giorgio Manacorda a collaborare al progetto dell’annuario di poesia, sponsorizzato dall’editore Castelvecchi.
Dopo avere pubblicato su numerose riviste, italiane e straniere, alla fine del 1994 Deidier consegna il suo primo libro alle edizioni Sestante, per la collana «Il mare in tasca», diretta da Fernando Marchiori e Silvia Raccampo. Il passo del giorno appare nei primi mesi del 1995, con una prefazione di Antonio Prete e la copertina di Piero Guccione, e ottiene il Premio Mondello per l’opera prima.
Dopo una breve collaborazione con le università di Roma Tre, di Cassino e con l’Enciclopedia Italiana, nel 1999 Deidier passa stabilmente all’università di Palermo. Con l’amico editore e stampatore Gaetano Bevilacqua pubblica la sua seconda raccolta di poesie, Libro naturale, arricchita da un’incisione di Giulia Napoleone, con la quale realizza altre plaquettes ed edizioni d’arte. Dal 2002 si trasferisce a Palermo, alternando frequenti soggiorni a Roma. Anche in Sicilia incontra scrittori e poeti, come Domenico Conoscenti, Roberto Alajmo, Evelina Santangelo, Nino De Vita, Maria Attanasio. Dopo l’improvvisa chiusura delle edizioni Sestante, propone a Marco Monina per le edizioni peQuod di Ancona di raccogliere in un unico volume le poesie dei primi due libri. Appare così Una stagione continua e nell’autunno dello stesso anno il nuovo libro,Il primo orizzonte, per le edizioni San Marco dei Giustiniani di Genova, con un’incisione di Piero Guccione.
Negli anni Duemila Deidier continua a pubblicare poesie in riviste, antologie, periodici, ma solo nel 2011 consegna a Marisa Di Iorio, per l’editrice Empirìa, un singolare quaderno di traduzioni, Gabbie per nuvole, senza i testi originali a fronte: un viaggio sentimentale tra le poesie che sono state importanti nel suo percorso di formazione. Infine, nel 2014, il lungo silenzio editoriale è interrotto da Solstizio, che appare nella collana «Lo Specchio» di Mondadori.

Foto di Domenico Stagno


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