Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 32) Blind Mr. Jones

È possibile considerare questi brevi scritti come uno degli effetti collaterali del reiterato abuso esperienziale dei supporti fonografici a cui ogni capitolo fa riferimento. Sebbene queste righe non preesistano all’ultimo ascolto che le ha generate sono state nondimeno lungamente preparate da centinaia di ascolti disordinati. Tanto disordinati quanto i cesti che raccolgono le macchinine e i mattoncini dei Lego nelle stanze dei bimbi: ritirando fuori “Tatooine” ho quasi sentito l’odore del fustino di Dash in cui negli anni ’70 spesso si usava riporre le viscere delle bambole squartate. Queste Hidden Gems non sono indipendenti da fattori per voi –ahimè- di nullo interesse, quali le molteplici peripezie del mio singolare, isolato tragitto dall’utero alla bara. Per provare a superare il senso di distanza che potrebbe cogliervi, provate benevolmente a pensare questi arruffati scrittarelli al pari di musiche da film, protette dall’accanimento dei lettori unicamente dall’escamotage preventivo del dichiararsi dipendenti da immagini. Solo che le immagini voi non le possedete, e dovrò provare a fornirvene qualcuna.

914624

A distanza di oltre vent’anni i dischi letteralmente consumati dagli ascolti e infine riascoltati non tornano mai a mani vuote. “Tatooine” dei Blind Mr. Jones è uno di quegli ospiti munifici che sommergono di doni, che riempiono di complimenti i padroni di casa per le scelte d’arredamento e che trovano i nomi dei vostri figli veramente originali. E soprattutto è uno di quegli amici un tempo così intimi che oggi non può che ritrovarsi inchiodato al ruolo di misuratore della distanza che separa da ciò che si era al tempo dei fatti.
Potrebbero canzoni così naif, così dannatamente adolescenziali, attecchire una seconda volta con la stessa fulmineità? (Ma sono stato -almeno per metà, vostro onore- ingannato, e per l’altra metà ho voluto ingannarmi: il primo disco dei Blind Mr. Jones, “Stereo Musicale” (1992) apparve come agìto da ambizioni ben più articolate del suo seguito, lasciando eccentricamente risuonare il suo flauto lungo strutture a metà tra i Jethro Tull in gita premio e gli Ozric Tentacles a velocità dimezzata).
Intrattengo l’ospite con quattro vaghe ciance ma, nel mentre, spio i suoi occhi che trascorrono inquieti sulle suppellettili della mia nuova casa. Vedo che non riconosce niente, che è a disagio. Chi è questa band che un tempo divideva con me il sonno? Che sembrava appartenermi d’ufficio anche solo per il bizzarro metodo di scelta del moniker (giustapporre i titoli dei primi due pezzi in scaletta di “Naked” dei Talking Heads, il disco dell’ultima gita di liceo).
E se il disco è consegnato alla sua incangiante medesimità fisica, chi sono io adesso per svuotarlo di tutto a eccezione dalla sua perfetta buona apparenza?

“Tatooine” era un disco costruito per affisarsi alla pelle ancora intonsa d’una generazione di scruta-lacci imberbi, immuni dal virus del tatuaggio estensivo e preoccupati piuttosto d’inciampare nel riconoscimento di sé senza doverlo per forza scoprire particolarmente utile. Vivevamo avvolti da uno sciame d’api elettrico, da un ronzio sottoposto a ogni possibile mutazione effettistica e, per il resto, inseguivamo melodie come chi cacciasse farfalle e potesse trovarle solo annegate in mari di eroina legalizzata.

A-256669-1188005366.jpeg
Shoegaze era primariamente un modo d’acconciare melodie vocali – una dilatazione di spugnette Stanhome su armonizzazioni meticolose e onnipresenti – e contenuti semplici, semplicissimi, eppure enfatizzati dal rombare schiumoso delle nubi chitarristiche e dalla tetra mancanza di joie de vivre del basso. Una (non-)rivoluzione modesta, in fondo, ma che ci acchiappò come topini di Skinner.
A vent’anni il glucosio si bruciava in fretta, e la vita appariva come una diuturna effrazione armata nei records shop per procurarsi gli zuccheri adatti alla degenza degli spirti vitali. La leggerezza sfaccettata e ben congegnata di “Tatooine”, ancor più dei campioni dello shoegaze ortodosso, tentava di proporsi come pop assoluto, eppure aggiornato ai tempi. Qualcosa che, con ben altri mezzi a disposizione, i Blur compivano nello stesso anno con “Parklife”. L’interesse di questo dischetto, oltre alla sua brillantezza compositiva (i pezzi scorrono che è un piacere) sta proprio in questa coappartenenza tra le suggestioni dello shoegaze e la concretezza del britpop. Si potrebbe concepirlo come una versione matura e articolata delle intuizioni di “Leisure”, o una versione più cupa e dreamy delle zig-zagaglie di “Modern Life is Rubbish”. Comunque vogliate incasellarlo, le parole servono solo a far scattare un po’ di familiarità. Spero che il disco non vi colga del tutto di sorpresa, nello stesso istante in cui vi sorprende.

Alessandro Calzavara


In copertina: “Tatooine” (front cover, Blind Mr. Jones, 1994)

Rispondi