Le “altre scritture” del quotidiano, recensione a Arrenditi Dorothy! di Marilena Renda

Di Alfredo Nicotra “La lingua comincia ad emettere suoni prima inauditi, la schiena accetta di curvarsi sotto il peso dell’assurdo, la pancia si fa traghettare verso grembi stranieri, le parole dette alla rovescia si fanno leggere in mille direzioni, si ospitano cento altri nel proprio carapace. Meglio essere altri, impossibile essere noi”. Il frammento tratto dalla raccolta Arrenditi Dorothy!, esordio in prosa della poeta Marilena Renda (Ruggine, 2012), esprime, oltre alla riflessione sottostante una precisa poetica, la densità che la parola assume nel suo lavoro. Dove la scrittura non ripiega nell’ostensione di un rapporto conciliante tra le parole e le cose, tra il mondo e la sua “modellizzazione”, ma agisce in favore di ciò che “rende pericolosa la letteratura”, come scrive Maurice Blanchot, nella possibilità di condurre il lettore “dove davvero non sei mai stato. Dove ci si ostina, e più di tutto ci si spaventa, Dove niente ci sorprende, nemmeno i cicloni, Dove il passato si rivela piccolissimo e gigante“, come dichiarano le tre sezioni del libro. Pubblicato da L’Orma, nella collana fuoriformato, per la cura di Andrea Cortellessa, Arrenditi Dorothy! si unisce a quella nuova formazione di testi ibridi che lasciano indecidibile la loro collocazione nel sistema dei generi, capaci di afferrare gli smottamenti di un presente sempre più difficilmente rappresentabile verbalmente, grazie alla profonda omologia tra il mondo e la rappresentazione che ne fanno. Sono le “altre scritture”, che eludono le categorie classiche del campo letterario. Per presentarsi come “testi-individuo”, “opere-esperienza”, che nel disorientare il lettore lo immettono in un orizzonte d’attesa straniante quanto sempre più attuale, contrariamente ai “testi-massa”, prodotti e confezionati dal mainstream editoriale per il consumo di un pubblico sempre normalizzato. Sono testi che confermano la convinzione che “non necessariamente (…) la scrittura in prosa (…) debba rientrare nella sagoma preformata del romanzo tradizionale”, ma che essa possa essere “un campo privilegiato” per la scrittura poetica (Andrea Cortellessa, La terra della prosa, L’Orma, 2015).

Arrenditi Dorothy! è “un libro di prose” e “immagini ritagliate da film”, che intrecciano una relazione ipotestuale con limmaginario cinematografico e mediale, attraverso un doppio legame di genesi e spossessamento, di parodia e fraintendimento.

Nati da frame e da “immagini-innesco” che sono “parte effettiva della scrittura”, di cui espandono il senso, “in un processo dove l’una sposta l’enunciato dell’altra (…) costringendo il lettore a un’attività ermeneutica, che tende a ‘rinnovare’ il testo nell’immagine e viceversa”. Prose non narrative, il cui procedimento conserva la densità semantica dello specifico poetico.

Come Dorothy nell’universo del Mago di Oz, Renda rievoca i luoghi del proprio vissuto e di una realtà trasfigurata, per indagare le scuciture dellesistenza, lo “spazio interstiziale” di un quotidiano da cui estrae i “segni del disastro”.

Tra avvenimenti ordinari vissuti in interni abitati da presenze e animali totemici, il suo sguardo laterale (replica della fotografia di Diane Arbus, citata in esergo) trasforma le pagine in paesaggi inquietanti, il domestico in perturbante, fissando vertigini, percezioni sottili e alterate, sensazioni pulviscolari, “paure e perversioni così piccole che inquietano davvero”.

Ma con una visionarietà fiabesca (“molti racconti sembrano modulare una fiaba”, ha osservato Anedda). Ma sono fiabe per adulti, fiabe nere, dove le città si alzano come fondali di cartapesta (la Vucciria di Palermo, con le case tagliate come fette di pane) o sono linee che si deve imparare a mettere in ordine. Tra questi sentieri, il più perturbante conduce all’incontro con l’altro, abbrivio di una dinamica di relazioni sadiche che inscenano i “corpi-olocausto”. Gli amanti sono in realtà dei duellanti: “come se ognuno dovesse difendere un tesoro dagli attacchi dell’altro, o come se cercassero reciprocamente di disarmarsi”. Campo di esplorazioni privilegiate, il corpo permette il contatto tra il sé e il fuori: strumento di una conoscenza piena (“adesso la tua cosa mi parla, ho la pancia bagnata della tua cosa che parla, capisco le sue parole selvatiche e mi piacciono. È un sollievo capirsi finalmente”) e insieme “luogo inconcepibile alla logica”. E tuttavia non aggirabile (“più di questo rimescolamento del tempo e dei corpi non c’è granché al mondo”) nella tensione a una “abolizione della distanza”.

Non meno fisica e tattile è la parola, perché in questa prosa “è attraverso le parole che si vede e si sente”.

Una “lingua scura e consonantica” che l’autrice usa ossimoricamente come “un lume per illuminare il disastro”. “Una lingua oscura che non si può smettere di toccare perché nelle sue pieghe ci sono parole che vanno continuate a cercare”. Dove i periodi si attorcigliano in perifrasi, circonlocuzioni e “falsi movimenti”, e la parola si lascia trasportare dalla sua stessa fabulazione, tra “mulinelli” e “cortocircuiti di pensieri”, arresa a “equivoci sensoriali”, in una erranza del senso che la spinge verso “qualcosa che non si può dire”, ma sempre sul punto di affiorare.

Simili sono gli spazi percorsi, omologhi a questo disorientamento, sospesi tra vaghi deittici spaziali e temporali, che “indicano senza indicare” – per utilizzare le categorie strutturaliste di Jean Cohen (La struttura del linguaggio poetico , Il Mulino, 1974).

Lo stesso effetto di choc che corre tra la parola e ogni “fotogramma isolato che con la storia del film da cui è tratto non ha più nulla a che vedere”, ma che in virtù di questa dissonanza riesce a liberare “parvenze” e “indizi fluttuanti di significato” (Ju Tynjanov). È “il ruolo storico della parodia” rianimare “nuove possibilità costruttive” nell’istituzione poetica. Si comprende allora come il modello della fiaba e la transcodificazione da un immaginario mediale siano i metodi compositivi privilegiati da Renda.

Ad essi seguono le figure retoriche dell’ellissi e della disgiunzione della linearità del discorso.

La narrazione si svolge per elisioni e allusioni, dentro una prosa verticalizzante che avanza “per sottrazione”, fondandosi non sugli artifici stilistici della prosa d’arte ma “sull’assenza, la beànce” (Paolo Giovanetti, Dalla poesia in prosa al rap, Interlinea, 2008), lasciando “la significazione di volta in volta perduta e ritrovata”, “come una trama trasparente” (Cohen).

Allegoria del rischio di cui la scrittura sa farsi carico (“mi sono seduta in quest’altro niente, e gli ho chiesto di proteggermi per sempre”), nel momento in cui, allontanandosi dalle false rappresentazioni, apre squarci nel nostro quotidiano che solo questa scrittura può attraversare poiché “l’unica cosa che (…) sa è che il cuore si può inventare, e il coraggio si può improvvisare”.

Marilena Renda, Arrenditi Dorothy!, prefazione di Antonella Anedda, pp. 184, € 16, L’Orma Roma 2015

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