Reportage di Laura Di Corcia: dal Centro Riabilitazione Alzheimer (presso la Casa dei ciechi di Lugano)

Renzo non parla. Cammina. Cammina lungo il corridoio alle cui pareti c’è il mare – polipi, stelle marine, onde – e lo fa novanta, anche cento volte al giorno. E anche di notte. Renzo qualche volta è felice, spesso arrabbiato. Allora, visto che non riesce a esprimere tutto il malcontento, sulla cui origine forse sa poco, macina chilometri. Avanti e indietro, avanti e indietro. Quando si mette piede nel Centro Riabilitazione Alzheimer (presso la Casa dei ciechi di Lugano), l’unico vocabolo ammesso, l’unico che non turbi quel mondo intatto, diviso dal (eppure così unito al) resto, è la parola “forse”. Lo dice Sara, la caporeparto: mi piacciono perché sono veri, non fingono mai, vivono di emozioni. Ma cosa sta vivendo Renzo (nome di fantasia, come tutti quelli dei pazienti che appaiono in questo pezzo, tranne un’eccezione), perché cammina e cammina tutto il giorno? Perché invece Luigi ride e imita Alberto Sordi? Quando balla e si muove, chi crede di essere? Dove pensa di passare la sua giornata? Si ricorda che anche ieri era qui, e il giorno prima pure? Alberto invece è convinto che il soggiorno finirà presto. “Sto qui ancora un attimo – dice – poi basta. Ormai ho finito, sono diventato”. Non conclude la frase, e intuiamo che, forse, pensa di essere in una sorta di scuola dove si passa qualche anno, si apprendono delle nozioni, poi si chiude il capitolo. “Alla fine”, dice. Alla fine di cosa? “Del periodo”. Il tempo. È questo uno dei problemi principali della malattia, uno sfasamento nella percezione del tempo. Nessuno si ricorda quando è arrivato, dicono un anno e invece si tratta di un mese, ma i ricordi del passato sono lucidissimi. Lucia, per esempio, mentre piega fazzoletti e imbandisce la tavola e sparecchia (un lavoro che sono chiamati a fare tutti, se hanno voglia, a parte i casi più difficili – e lo fanno, e bene), cita spesso frasi di sua figlia. “Mamma, ho pagura – mi diceva. “E io le rispondevo: si dice ho paura, amore”. Lucia pulisce da mattina a sera. Lo fa con l’espressione in volto di chi ha una missione, un compito assegnatole dal Padreterno. Come se fosse ancora una casalinga dal cui impegno dipende il buon funzionamento della casa. “A volte piego tutti i fazzoletti da sola”, dice orgogliosa. “Beata te che riesci – interviene Francesca. “A me il dottore ha detto che non posso, che devo riposarmi”. Francesca, fra i dieci ospiti, è la più lucida. Le hanno detto che avrebbe trascorso solo pochi mesi in istituto, giusto il tempo di riposarsi. Ma lei qualcosa ha intuito e sembra non amare gli altri anziani. “Ma Sara è brava – dice. “Se non avessi lei cosa farei?”. Anche Ruth è guardinga verso gli altri. Non si siede subito a tavola, preferisce “lasciare il posto a chi ha paura di non trovarlo”. Però ha legato con Lisa, una delle ospiti più difficili. Lisa non parla, fa uno strano suono e cammina spesso, insieme a Ruth o a qualche operatore. In totale sono otto: Sara, la caporeparto, e altri sette operatori. “Si svegliano verso le sette – mi racconta Sara. “Alcuni invece rimangono di più a letto. La giornata è scandita da alcuni riti. Quello del pranzo e della cena è molto importante”. Poi, i ricordi. Adesso è estate, le giornate sono afose e nel giardino ci si può stare solo di mattina – c’è anche chi si occupa dell’orto. Nel pomeriggio chi vuole gioca a palla, ascolta la musica, aiuta a decorare il corridoio a tema marino. Ci sono cartoline appiccicate sul muro, c’è Malta, c’è la Romagna patria natale di uno degli ospiti, c’è la Sardegna. “Lavorare sui ricordi è molto importante – mi dice Sara, mentre mi mostra il corridoio che sembra quasi profumare di mare. “Da questa malattia non si guarisce, ma possiamo tenerli allenati in modo che progredisca il più lentamente possibile”. Sara cammina fiera. È nel team da pochi mesi, ma uno non lo direbbe mai: pare essere sempre stata qui e ha la felicità dipinta in volto. “Trasferirmi in questo Istituto è stata la scelta professionale più felice che potessi fare – dice, guardandomi negli occhi. “Certo – aggiunge – per lavorare qui devi lasciare da parte tutti i tuoi schemi mentali. Non puoi pensare che fai le docce al mattino e la chiudi lì. Ma loro ti ripagano con un affetto indescrivibile”. Mentre camminiamo, ci imbattiamo in una stanza la cui porta è ancora più decorata delle altre. Cuori, “ti amo”, fotografie. Chi ci dorme? “Giancarlo, l’ospite più giovane – mi spiega Sara. In seguito, parlando con sua moglie, Claudia, scopro tutta la storia: Giancarlo Fara (nome vero) ha sessantacinque anni e ha iniziato a dare le prime avvisaglie della malattia cinque anni fa. “Operando nel campo della ristorazione, sia io, che mia madre, che le sue due figlie, ci siamo accorte che faceva confusione con le ordinazioni – esordisce Claudia, che mi racconta per filo e per segno tutto l’iter, dalle prime perdite di memoria alle allucinazioni. “All’inizio non ci ho fatto tanto caso. Sbagliava le strade, anche quelle che facevamo tutti i giorni, passava col rosso, ma io ho attribuito queste sviste a una leggera depressione legata al fatto che ci eravamo trasferiti in Italia, a Porto Ceresio, posto dove lui non si è trovato bene”. Ma una volta rientrati in Svizzera, Giancarlo non ha dato segni di miglioramento; anzi. “Guardando la tv, diceva di conoscere di persona attori famosi, che erano arrivati al ristorante. Poi ha iniziato con alcune fisse: voleva partire, voleva andare a San Moritz, dove da giovane in effetti aveva lavorato. Conosco la padrona dell’albergo, diceva, ho già un contratto con lei”. Un trasloco continuo: spesso e volentieri Claudia, tornando a casa, trovava tutte le cose riposte negli scatoloni fuori dalla porta. “Non sapevo come gestire la situazione: chiamavo spesso il geriatra chiedendogli come dovessi comportarmi. Mi consigliava di lasciarlo fare e di chiamare l’ambulanza e la polizia nel caso in cui si fosse messo veramente in viaggio”. Poi sono arrivate le allucinazioni, vedeva uomini in casa, presunti amanti di Claudia; altre volte non la riconosceva come moglie e le chiedeva di togliere il suo cognome dalla carta di identità. “Era diventato aggressivo. A un certo punto sono intervenute mia madre e mia figlia, che già da tempo mi pregavano di farmi aiutare; il mio medico di famiglia mi ha proposto un ricovero. All’inizio pensavo che si sarebbe trattato di qualche settimana, per stabilizzare la situazione: ma vista la sua aggressività, il medico mi ha un po’ costretta a spostarlo a Mendrisio”. Il peggioramento cognitivo è stato molto rapido, nell’arco di pochi mesi Giancarlo è crollato. “Non potevo più lasciarlo da solo a casa, nemmeno per un quarto d’ora. Ho capito che andava inserito in una struttura idonea e per fortuna ho trovato questa”. Claudia ci ha messo un po’ ad accettare la malattia e la sua rapida progressione. “Mi sono ritrovata accanto un marito che non sapeva più rispondere al telefono e accendere la tv. Una persona che faceva programmazione informatica. Ci ho messo un po’ ad abituarmi all’idea di non averlo in casa, mi sentivo in colpa, mi sembrava di averlo abbandonato”. La camera di Giancarlo è piena delle cose che hanno scandito la sua vita: il pc, le foto delle figlie, i ricordi del passato. Quando lei, che va nel centro tutti i giorni, gli chiede, mi ami? Lui risponde: certo. Come se su questo punto, nessuna malattia al mondo, nonostante i momenti nebulosi, possa fare nulla. Rimane un nucleo puro, incontaminato. Intorno a questo, il regno del forse.

 

Intervista al Direttore Fabrizio Greco

Scriveva che i bambini non dovevano vivere in un ambiente plasmato sui bisogni fisici degli adulti, ma sui loro, riconoscendo nello spazio l’elemento per valorizzarli come esseri unici ed irripetibili. Il metodo Maria Montessori, basato sull’importanza degli stimoli esterni e sulla loro influenza a livello del comportamento dei più piccoli, può essere adattato anche alla persona anziana. Questo, in pratica, il percorso che si fa nel Centro Riabilitazione Alzheimer di Lugano. “Siamo partiti già molti anni fa perché ci siamo accorti che gli altri modelli di cura avevano delle lacune – spiega il Direttore, Fabrizio Greco. “Montessori si occupava di bambini piccoli, quindi il suo modello può essere applicato anche a persone molto debilitate. Abbiamo iniziato così, poi ci siamo accorti che in campo internazionale anche il Professor Cameron Camp si era indirizzato in questo senso, con modelli operativi che abbiamo preso in prestito”.

I bambini, crescendo, acquisiscono delle abilità, gli anziani affetti da alzheimer le perdono. Come è possibile applicare lo stesso modello?

Semplicemente al contrario. Utilizziamo anche la teoria degli sviluppi di Piaget, ma mettendola a testa in giù. Il modello serve a utilizzare le capacità residue. Un principio fondamentale di Montessori, che noi applichiamo praticamente tutti i giorni, è riassumibile nel motto “aiutami a fare da solo”.

Ho visto con i miei occhi che proponete agli anziani una serie di attività, dal piegare gli strofinacci al preparare il pesto fresco. Lo scopo è quello di preservare le loro capacità residue?

In generale noi non imponiamo nessuna attività, perché non riteniamo che sia rispettoso. Sono gli operatori che partono con un’attività e se la persona è interessata, si avvicina spontaneamente. Entrando nel nostro centro, è possibile vedere due operatori che giocano a carte. Non lo fanno certo per passare il tempo, ma per stuzzicare gli ospiti, perché magari ad alcuni di loro lo scopone scientifico o la briscola son sempre piaciuti molto.

Come fate a sapere quali sono le loro preferenze?

È molto importante la ricerca della biografia dei nostri ospiti. Chi è questa persona? E soprattutto: chi pensa di essere? Se la persona che abbiamo di fronte ha novant’anni, ma è convinto di averne quaranta, ci interessa sapere cosa faceva a quell’età, quali erano le sue passioni, i suoi amori. Lavorava in posta? Benissimo. Faremo in modo di trovare dei timbri postali, delle lettere, delle cartoline. Questi elementi vengono lasciati nell’ambiente e sono gli anziani che vanno eventualmente a prenderli. Si tratta di stimoli, opportunità che non distruggono il loro immaginario. Per quello il mobilio non è moderno, ma retrò. Molti pazienti hanno il pc, anche se non lo usano. Perché? Non è importante l’utilizzo dell’oggetto, ma il suo riconoscimento. Ciò che conosciamo ci tranquillizza.

Perché lo scopo è quello di farli vivere serenamente.

Non c’è possibilità di guarigione da questa malattia. Anzi, il peggioramento è garantito. Per questo a noi interessa la qualità di vita; vogliamo che la persona sia serena, si diverta, stia bene. L’ambiente è carino e conviviale. Poi ci sono i momenti di tensione, come dappertutto. Lasciamo le porte aperte in modo che loro possano girare ovunque. Non li obblighiamo a fare nulla. L’ospite non vuole togliersi il pigiama? Va bene. Ci sarà il momento opportuno per vestirlo. Non imponiamo niente, perché ogni volta che lui o lei non capisce quello che vogliamo fare, si creano delle tensioni che magari sfociano in rabbia. Non è vera aggressività, è che il malato non riesce a decodificare la situazione. Scommetto che anche noi, se non capissimo perché qualcuno ci tocca o strattona, diventeremmo aggressivi. E non è nemmeno vero che scappano: hanno semplicemente l’intenzione di andare da qualche parte. Dove? È quello che cerchiamo di capire.

(Questo reportage è stato pubblicato su “Azione”, settimanale della Svizzera italiana).


In copertina: Giardino della Casa dei Ciechi (Lugano).

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