Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 20) Simian

Simian

simian

Ci sono dischi che girano meravigliosamente a metà. Mettiamo: base musicale eccelsa ma fortemente vessata da una voce antipatica. Oppure: partiture magnifiche eppur devastate da suoni invisi e unghio-stridenti. Poi ci sono dischi troppo densi, in cui si fa fatica a tirare il fiato per mappare il percorso appena concluso. Ci sono i dischi noiosi in cui una buona idea viene tirata e slabbrata sin quando perda qualunque fascinazione. Ci sono i dischi che possono essere ascoltati solo in determinati momenti e che disconoscono ogni parentela con la medietà evenemenziale dell’ascolto. D’altro lato ci sono dischi che puoi ascoltare in qualunque frangente e, in questa flessibile prostituibilità perdono ogni appiglio alla magia dell’incontro risolutivo. E vogliamo parlare i dischi belli che sei costretto ad associare per sempre a copertine sciatte o che rivelano cattivo gusto, tali da far scattare cortocircuiti estetici? Potremmo anche parlare dei dischi che si consumano dopo pochi ascolti – un po’ come passare da Messina con l’automobile e trovarla sì carina ma non abbastanza da dedicarle una seconda visita. E capita anche l’opposto: girare vitanaturaldurante attorno a un disco che –come una donna fatale- ci rimarrà sempre freddo e distante.
E poi esistono i dischi che possiedono ogni ponderazione, spirituale e materiale. Dischi che non conviene ascoltare mentre tenti di scriverne, perché la loro leggerezza ti distoglie da compiti più onerosi con la forza pinocchiesca dell’insopito istinto e la loro densità non ti permette di tornarci prima di aver perso interesse. Dischi che immagini basti farli scorrere per provocare ipnosi meningiche di massa. Eppure non fu così: le recensioni (sostantivo ormai sinonimo di frettolosa catena di montaggio semantica) di quindici anni fa citarono, per questi giovani mancuniani, la Beta Band, il solito Lennon e variando soltanto qualche nome dell’elettronica retro, per evocare un po’ d’arguzia associativa.
A me “Chemistry is what we are” suona dopo tre lustri fresco come al primo ascolto, e di più: ciclico e progressivo al medesimo tempo. Sarei tentato di descriverlo come un disco senza il quale gli anni ’00 dovranno per forza apparirvi meno eccitanti di quanto non siano. Sebbene agli anni ’00 potrebbe non appartenere, se provassimo a vivisezionarlo: le voci spesso e volentieri falsettate e armonizzate non possono non ricordare quei pusher decibelici di surfer californiani; i borbotii elettronici ben scanditi e spesso al centro dell’attenzione sono così naif da poter appartenere allo stesso momento ai Silver Apples e ad Aphex Twin; le melodie pop di talune song –se arrangiate con più filologia- potrebbero non discostarsi troppo dagli archetipi liverpooliani etc. Ma, come prevede la teoria della Gestalt, qui la somma delle componenti sta davvero su di un altro livello interpretativo. È piuttosto ingeneroso definire, come è stato fatto, questo primo lavoro dei Simian un disco “bello, ma non particolarmente originale”. Perché potrebbe far scattare la questione: dove veramente dovrebbe essere cercata l’originalità di un’opera musicale? Negli elementi puramente esteriori? Qui a me sembra che vi sia all’opera un lavoro veramente singolare e irripetuto (neppure dagli stessi autori): ogni canzone porta saldo il suo perché ed è capace di rivestirlo d’una forma tanto neghittosa quanto brillante, che sia lo scazzo più assoluto (“How could I be right”), il pop indolente e insistito (“Mr. Crow”, “One Dimension”), la scrittura diaristica sintetica (nel vertice di ammiccanza “The Wisp”), nel mertensismo apocrifo (“Drop and Roll”), nel jazzy space da supermercato cannabinoide (“Doba”), nel depresso organismo da dopolavoro retrofuturista (“You set off my brain”, “Round and Round”), nel bonustrackismo partridgiano (“Tree in a Corner”), nel bitume psichico (“Orange Glow”), nell’infantilismo eniano (“Chamber”). Ovviamente queste categorie non esistono, e fanno il paio con il surreale artwork che marchia la cover, l’interno del booklet e persino i coevi ep centripeti: fantanimali geneticamente modificati ma paciosissimi nel loro assumere i raggi d’un sole che senza troppi giri di parole dichiareremo “ispirazione”.

simian retro

Alessandro Calzavara


In copertina: Chemistry is what we are (front cover, Simian, 2001).

Rispondi