Lo scenario post-democratico

Nota interna di democrazia

Un’analisi di Nicola Bozzo

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Vignetta di Davide Racca

La crisi della costituzione e delle costituzioni non è tema dell’oggi.  Essa in larga parte coincide con un processo storico-politico in atto da tempo, risalente e che oggi ha assunto una sua manifestazione evidente tanto da costituire il tratto specifico che permette di definire la contemporaneità.

Consapevoli della parzialità di ogni sintesi verbale chiamiamo comunque globalizzazione ciò di cui stiamo parlando: ossia la totale emancipazione della sfera dell’economico dai confini territoriali-statuali che avevano costituito la traccia distintiva della modernità con il venir meno della capacità della sfera pubblica-politica di esercitare i poteri di indirizzo e di regolazione e quindi con la progressiva erosione dell’ effettività della costituzione, il suo progressivo e inesorabile svuotamento.

Le costituzioni contemporanee,  e quella italiana in particolare  con il suo tratto di grande originalità, nascono dentro l’idea di un nesso irrinunciabile tra sfera dei diritti e sfera di poteri, nel senso che i primi, nella  sintesi di diritti politici, civili e sociali, possono essere assicurati (quelli sociali in particolar modo) attraverso una capacità di prestazione dei pubblici poteri , senza cui restano lettera morta, pura simbologia giuridica, suggestiva certo ma  inefficace. È proprio la  sfera pubblica ormai descritta con poco efficacia analitica con l’ espressione governance, ad essere travolta dalla materialità delle dinamiche accennate.

È assai probante che il presidente dalla Bce (Banca centrale europea), Mario Draghi, abbia recentemente affermato che i governi nazionali agiscono attraverso un “pilota automatico”, cioè con la definizione preventiva degli obiettivi e delle finalità del loro agire (stabilità monetaria, contenimento del debito). Non ci può essere sintesi più efficace capace di descrivere  l’epilogo di quella funzione o attività di indirizzo politico che stava a significare la definizione di finalità proprie del livello politico-statale dentro il quadro esigente dei principi costituzionali.

È stato giustamente osservato che i  processi di cui si parla non sono oggettivi, non possono essere letti attraverso categorie “naturalistiche”, viceversa sono frutto di decisioni politiche neo costituenti cha da circa un trentennio hanno rotto quell’ equilibrio tra democrazia e mercato, ovvero  il segno caratteristico della civiltà sociale del secondo dopoguerra. Questa globalizzazione ha una matrice politica: è la reazione delle oligarchie economiche e delle élites politiche  a quell’eccesso di domanda che andava sviluppandosi all’interno delle compagini statali ispirate al welfare e ai vincoli solidaristici che ne derivavano. È la rottura unilaterale del patto sociale del dopoguerra europeo in particolare-

Non potendosi più la politica legittimare dentro una logica “razionale” di rappresentanza dell’ articolazione sociale , capacità di mediazione del conflitto sociale, né essendo comunque più la politica capace di farlo per ragioni che non possono essere nemmeno sfiorate adesso, ecco che i criteri di legittimazione divengono sostanzialmente post-democratici.

Il primo è dato dalla mitologia del governo tecnico. Scompare l’ idea della democrazia come sintesi di una società conflittuale e segnata da divisioni che la politica deve interpretare e rappresentare, costruendo la forma del legame sociale. No, alla pericolosità del “contagio democratico” si oppone un dato neutrale, oggettivo, appunto tecnico-scientifico.

Questo scenario post-democratico, che rinuncia deliberatamente al nesso complessità sociale-rappresentanza, che costituiva il cuore della grande riflessione di Hans Kelsen sul valore della democrazia nel  primo ventennio del secolo scorso, di fronte all’ irrompere delle masse e dei loro partiti sulla scena pubblica, si deve ritenere legato alla necessità  di contenere quanto più possibile l’irrompere delle “democrazie della crisi” nel cuore della statualità, o della sfera pubblica-istituzionale. Non a caso è una tendenza propria dell’Unione europea la sua governance in larga parte non democratica-rappresentativa, ma tecnica, burocratica, dunque oligarchica, ed anche i cosiddetti governi tecnici, che poi tecnici non possono “ontologicamente“ essere.

Si tratta certamente di una illusione, che però nutre in sé il germe di un pericolo, cioè la radicalizzazione e la furia centrifuga delle domande che non riescono ad essere “disciplinate” nell’articolazione democratica e appunto i populismi, che tanto si dice di voler combattere, in  realtà si incoraggiano, si fanno sedimentare e proliferare, in nome della governabilità tecnica-aristocratica che, ribadiamo, è astratta perché sprovvista dell’attitudine ad essere punto di governo reale della spigolosità dei processi materiali.

L’ altra mitologia è una certa forma del populismo. Esso non è per nulla democratico. Esso fa ricorso ad un fattore di legittimazione post-democratico. Ossia, l’ethos originario di un popolo, la sua radice primigenia, dunque un dato non contendibile e quindi democratico, ma oggettivo, che occorre svelare attraverso una leadership plebiscitaria che non fa altro che essere il “maieuta” che dà consistenza attuale a quel  tratto identitario ed ovviamente escludente.

I due movimenti, credo, possono essere letti e interpretati attraverso un unico modello interpretativo. Quanto più la decisione pubblica democraticamente fondata non ha progressivamente più un oggetto preciso, perfino il fondamento del parlamentarismo nel no taxation without representation è un figurino ideale di fronte alla finanziarizzazione e delocalizzazione del capitale, tanto più si deve inventare una giustificazione del proprio ruolo di governo non più correlato ad una determinazione dei fini ed organizzazione dei mezzi e sulla verificabilità  di questa regola elementare della decisione democratica, ma si  deve ricorrere ad una “mitologia”, ad una “extralegittimazione” enfatica e in ultimo metafisica. Si lega se stessi a qualcosa che trascende e prescinde dal gioco democratico, ma che realizza di per sé un valore, un bene.

Questa  autofondazione introduce –  come tutte le metafisiche che si sentono investite della definizione a priori del bene pubblico – un lessico della violenza politica. Il contestatore, l’oppositore da cives diventa hostis, nemico, perché la dialettica bene versus male, non ammette zone d’ombra, e le figure sintomatiche del male sono il complotto, l’ interesse di parte contro il bene comune. La costruzione compulsiva di nemici, di volta in volta nuovi e cangianti.

La terza mitologia, anche se nella realtà si tratta di figure non così analiticamente distinte, è la post democrazia plebiscitaria. Il capo è un predestinato. È la sintesi vivente di ciò che è bene. In tutti i tratti storici di mutazione sistemica questa pulsione assume consistenza. Siamo assediati dalla proposizione del mito della velocità, della presunta efficienza, della semplificazione decisionale. A pensarci è un luogo culturale del futurismo e dei populismi: il fastidio per ciò che è articolazione della democrazia, corpi intermedi, autonomie, democrazia organizzata. No, è tutto un ciarpame per i nuovi demiurghi. Tutto per dare una parvenza di legittimità all’unica possibile forma di realizzazione del mito della velocità, ossia la verticalizzazione integrale del potere, il congedo dalla razionalità democratica dei pesi e contrappesi, la riduzione del popolo a indistinta unità originaria, che esiste politicamente solo nel plebiscito rituale e catartico che il nuovo sovrano di tanto in tanto richiede.

Tutto ciò può essere analizzato con il metro della rappresentanza come relazione. Se le relazioni primarie, in quanto concreto e reale tessuto connettivo della società, entrano in crisi, intervengono allora dei surrogati, delle mitologie, delle proiezioni simboliche, dando luogo a forme di identificazione passiva e subalterna

Molto ci sarebbe ancora da dire. Ma il cuore della post-democrazia spero che sia stato svelato abbastanza.

 

Nicola Bozzo

 

 

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