Il Vittorio Emanuele riapre le porte alla lirica con “La bohème” di G.Puccini

di Marta Cutugno

Messina. Dopo lunga pausa, l’opera lirica ritorna al Vittorio Emanuele con “La bohème” di Giacomo Puccini. Ispirato al romanzo “Scènes de la vie de Bohème” di Henri Murger – che Giacomo lesse in una giornata piovosa nel marzo del 1893 – il dramma lirico in quattro quadri racconta dei giovanili ardori, della scanzonata vita bohèmien, di “sogni e di chimere” che in egual modo, Murger e Puccini, accostarono alle loro personali esperienze. Il libretto è di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, autori con i quali l’operista aveva già avviato felice ma non semplice collaborazione per “Manon Lescaut” (1893): l’impulsivo Illica ed il riflessivo Giacosa, lavoreranno, in seguito, anche ai libretti di “Tosca” e “Madama Butterfly”.
“La bohème” andò in scena per la prima volta il 1º febbraio 1896 al Teatro Regio di Torino: diretta dal giovanissimo Arturo Toscanini, ricevette immediato consenso di pubblico e non poche riserve da parte della critica che, nel tempo, non poté fare a meno di amarla. La prima rappresentazione messinese avvenne poco meno di un anno dopo, il 13 gennaio del 1897: nel cast Gina Spagna (Mimì), Silvia Puerari (Musetta), Ferdinando De Neri (Rodolfo).

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Messina riabbraccia la lirica all’insegna della tradizione, lontano dal vuoto di scarne sperimentazioni che, barricandosi dietro riduzioni dei costi e mancanza di finanziamenti, poco o nulla dell’operismo puro offrono ad un pubblico pagante. Si apre il sipario e, prepotente, si impone l’elegante forza delle scene sorretta, per i quattro quadri, dalla presenza di teli dipinti interamente a mano ed ispirati ai bozzetti originali di Nicola Benois, grande scenografo che operò alla Scala di Milano dal 1937 al 1970. Con massiccia ed ovattata profondità prospettica, le scene ricostruiscono la desolata povertà della soffitta, il colorato caffè Momus al quartiere Latino, il gelo tagliente fuori la locanda alla barriera d’Enfer: materiale scenico impreziosito e valorizzato dal gioco di luci ideato da Renzo De Chio. Tradizionali, bellissimi e curati nel singolo dettaglio, anche i costumi firmati da Carla Ricotti (assistente alle scene e ai costumi: Ilaria Ariemme).
Le scelte registiche di Giorgio Bongiovanni (assistente alla regia: Bianca D’Amato; movimenti scenici: Sarah Lanza) si manifestano da subito solide, strutturate e di buon gusto. Nel progetto del regista, infatti, emerge palesemente il desiderio di stabilire adeguata coesione tra la beata incoscienza dello spensierato viver giovanile – “età di inganni e di utopie” – e la tragedia della malattia, della morte.
Il cast, tuttavia – salvo rare eccezioni – non asseconda, in toto, tali intenzioni e non sempre si abbandona, generoso, allo slancio comunicativo. Esempio lampante ne è l’inefficace primo quadro in cui nonostante la tentata goliardia, i quattro squattrinati artisti non riescono pienamente a suggerire con naturalezza quella gioia di vivere, l’amore per la burla e lo scherzo tanto cari a Puccini. Diametralmente opposta, invece, la dinamica frenesia della folla nel quartiere latino, alla vigilia di Natale, che, per sua natura più insidiosa, si mantiene, invece, ordinata sotto ogni punto di vista.

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In ottima forma, l’Orchestra del Vittorio Emanuele diretta dal maestro Marco Alibrando (assistente alla direzione d’orchestra: Andrea Solinas). Rimodulati i volumi orchestrali eccessivi impiegati nel primo quadro – musicalmente, l’intera opera ha sofferto di una ‘non particolare’ ampiezza delle voci impiegate, per cui una quota delle sonorità orchestrali è andata inevitabilmente sacrificata – il maestro Alibrando ha effettuato una rilettura della partitura pucciniana attentissima e sensibile, dalla brillantezza dei suoni orchestrali del secondo quadro alla coinvolgente ma lucida enfasi di terzo e quarto quadro verso il commovente finale.
Il tenore Danilo Formaggia veste i panni di un ‘contenuto’ Rodolfo: esegue le arie al meglio ed appassionatamente ma perde d’intensità scenica e vocale nei pezzi d’insieme. Buona la performance di Salvatore Salvaggio che ha restituito un ottimo Schaunard, così come Angelo Nardinocchi, come Benoît, il padrone di casa prima, e dell’amante di Musetta, Alcindoro, poi. Molto poco convincente Eugenio Di Lieto nei panni del filosofo Colline che, nonostante l’esecuzione più che dignitosa della “Vecchia zimarra“, rimane sommariamente sottotono. Intensità scenica e vocale altanelanti per Vittorio Prato che, nel complesso, bene mette in evidenzia il carattere del pittore Marcello. Ad interpretare Mimì, gaia fioraia, Elisa Balbo, soprano dal buon fraseggio e precisione, tuttavia, non sempre in ruolo, eccessivamente controllata e poco naturale nel gesto. Paola Cigna riesce a portare alla luce, nel canto e nelle movenze, le tante sfumature della sfrontata e sensibile Musetta. Completano il cast Davide Scigliano-Parpignol, il venditore ambulante di giocattoli, Alessandro Vargetto-Sergente dei doganieri, Giuseppe Lo Turco-Doganiere, Giulio Arena-Venditore di prugne.

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Il Coro lirico “F. Cilea” diretto dal maestro Bruno Tirotta si conferma formazione affidabile, scenicamente partecipe ed eccelle in omogeneità e precisione di suoni. Preparato anche il coro di voci bianche “Biancosuono” di Messina, diretto dal maestro Agnese Carrubba.
Teatro affollato e lunghi applausi segnano e testimoniano riscontro ed attese. Per questo, come cittadina messinese, sento di dover ringraziare direttore artistico ed amministrazione del Teatro Vittorio Emanuele per il rinnovato interesse nei riguardi del genere/sintesi di tutte le arti per il quale l’Italia, con la sua storia, è conosciuta in tutto il mondo: nuovo inizio nel recupero dell’identità del “Vittorio” – prima “Santa Elisabetta” – che sin dal 1852 ospitò importanti allestimenti di tragedie, drammi borghesi, melodrammi romantici e Grand Opéra francese ad altissimi livelli.
Repliche: venerdì 1 Aprile ore 21:00 e domenica 3 Aprile ore 17:30

E. Saija fotografo

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