Croma K, nuova collana di poesia a cura di Ivan Schiavone

 

In occasione della pubblicazione dei primi due volumi della nuova collana di poesia Croma K (Lorenzo Durante con Quarantore e Vincenzo Frungillo con Le pause della serie evolutiva), diretta da Ivan Schiavone, proponiamo il manifesto di poetica, scritto dallo stesso curatore, e  chiediamo ad Ivan di raccontarci come è nato il progetto e che finalità si propone.

 

Programma minimo per Croma K

 

 

Sappiamo sin troppo bene che qualsivoglia verità non è che lo strumento attraverso cui una cultura si dota delle basi per la costituzione di un identità normativa e disciplinante, a partire dalla fase postcoloniale novecentesca è divenuto via via sempre più manifesto come cultura e identità non siano che categorie concettuali attraverso cui, l’Europa prima e gli U.S.A. poi, sono riusciti a giustificare il proprio progetto di imperialismo culturale parallelo e, forse, più devastante di quello politico-economico. Nonostante ciò è impossibile non ricorrere a diverse verità nella costruzione e nella gestione delle nostre vite, tra questa serie infinita di atti di fede che puntellano la nostra esistenza vi è l’arte.

 

Mi è difficile considerare l’arte come qualcosa di diverso da una macchina da pensiero che agisce per tramite estetico, uno strumento, tra i diversi che ogni cultura possiede, di propriocezione di una determinata comunità in un dato momento storico. L’immaginario in cui ci troviamo a vivere è scisso: da una parte colonizzato dal capitalismo avanzato che attraverso i riti dell’informazione, della moda, del consumo e della pubblicità ci immerge in una presentificazione in cui il nuovo non è che la ripetizione costante dell’identico, dall’altro i residui disorganizzati di identità arcaiche passate al vaglio della destrutturazione avvenuta nell’ultimo secolo, ibridate nell’entropia indotta dalla migrazione generale. L’arte si trova a dover scegliere dunque tra la testimonianza di un immaginario colonizzato e il tentativo di rappresentare la complessità culturale in atto, complessità che se da una lato ingenera l’angoscia dell’insensatezza, dall’altro suscita l’ebbrezza della confusione tra le culture del mondo, in un processo di autodefinizione che si va svincolando da qualsiasi identità monolitica. Il fatto d’esser partigiani di un immaginario o dell’altro sarà questione di posizionamento politico o, al minimo, d’organicità alla classe sociale d’appartenenza.

 

Un’arte postidentitaria dunque, una poesia nello specifico, la quale dovrà fare i conti però con i paradigmi culturali da cui proviene, non potendosi aggirare le possibilità reali di comprensione di una comunità che non è mai una comunità che viene ma è sempre, spesso malgrado noi, una comunità vivente. Paradigmi che, per quanto riguarda la poesia, concernono lingua, organizzazione formale, contenuto.

 

La questione della lingua, dopo essersi posta l’ultima volta in Italia negli anni ’90 del novecento, sembra essere una questione superata da un’accettazione irriflessa e diffusa della lingua dei media, quando non direttamente progettata come standard dall’industria culturale, caratterizzata per lo più da povertà lessematica e prestiti dall’inglese, ibridata in poesia con un lessico ricercato, ma di provenienza letteraria, o desunto da linguaggi tecnici, a secondo delle tendenze neoliriche o sperimentali dei diversi autori, lingua che dà la strana sensazione d’essere in presenza di una sorta di esotismo linguistico intraculturale. Lingua poetica che mette in luce lo stato attuale di malattia linguistica in cui versa l’italiano, lingua impraticabile olisticamente a causa della settorializzazione dei vissuti e delle esperienze, che ben descrive la coazione linguistica, esperienziale ed esistenziale che caratterizza le nostre vite.

 

L’organizzazione formale dopo la rivoluzione totale operata dalle esperienze poetiche più alte del novecento sembra essersi risolta in una polarità convergente tra l’indifferenza formale più rozza e la riproposizione di esperienze pregresse pubblicizzate, in linea con la presentificazione di mercato, come novità assolute. Ciò risulta vero a tutti i livelli organizzativi: sintassi, metro o processo, singolo testo, libro. I poeti ultimi sembrerebbero avere la pretesa di rifondare con ogni nuova opera la grammatica della poesia ma si risolvono infine in ben meno pretenziosi idioletti che solo ci dicono del solipsismo delle medesime operazioni del tutto ignare del rapporto con la tradizione che ha qualsivoglia organizzazione formale sia in termini di continuazione che di opposizione, idioletti che rivelano l’ignoranza dei mezzi attraverso cui comunica il testo poetico che è approcciato con lo sguardo riduzionistico di chi nel discorso poetico è in grado solo di valutare un contenutismo di superficie legato a un organizzazione grafica, versale, stereotipa e immotivata. Lasciando poi correre la questione dell’organizzazione retorica, nuova o vecchia che sia, del testo, questione quanto mai fraintesa e ignorata con unanimità dal nostro panorama.

 

Se in ultimo ci soffermiamo sui contenuti della scritture attuali ci si offre una congerie variegata in cui convivono poesia confessionale, realismo liricizzato o straniato, paesaggismo linguistico o descrittivo, poesia morale passata al vaglio delle pratiche più alla moda, fantasmaticità desunta per riciclaggio delle nuove retoriche elaborate dalle avanguardie. Realismo e fantasmaticità, confessione e straniamento, moralismo e riciclaggio  sono tutte conseguenze, facili quando non problematizzate o considerate sino alle estreme implicazioni, del collasso identitario su cui siamo strutturati. Interpretazioni valide dunque, sebbene corticali, che rispondono all’opacità della situazione in atto a partire dalla semplice testimonianza della realtà esperita, esperienza interiore, realtà oggettiva o oggettivata che sia, interpretazioni nelle quali abitano soluzioni di comodo ad un problema collettivo, soluzioni consolatorie che alla radicale messa in discussione a cui ci costringe il momento rispondono con la voce del rifugio, voce che predilige la riproduzione all’interpretazione, senza essere in grado di comprendere che ogni riproduzione è interpretazione, asserzione, manipolazione, cultura.

 

È per la necessità di testimoniare ciò che eccede l’esotismo e la povertà linguistici, l’ignoranza e il riciclaggio formali, il rifugio, il consolatorio e la sciocca riproduzione, che si è sentita la necessità di dar vita ad una nuova collana di poesia, nella speranza di riuscire a dar conto di quelle esperienze che sulla consapevolezza della stratigrafia dei livelli di significazione su cui si costruisce il testo poetico, e quindi sulla progettazione dell’opera quale significazione complessa, han fondato il proprio operare estetico. È curioso quanto appaia povero questo programma minimo, povertà che ben ci dice della volgarità a cui si è ridotto il panorama intellettuale che pur tuttavia è il nostro, che dobbiamo sperare non sia consegnato in eredità alle generazioni che vengono.

 

Una poesia come macchina da pensiero, una poesia tesa alla costruzione di un’immagine del mondo, una poesia conscia della propria artificialità in contrasto con qualsivoglia naturalità inesistente e impraticabile, una poesia fondata su una tradizione vissuta dialetticamente, in cui la relazione tra l’ora e l’allora ci racconti le identità delle comunità viventi, una poesia che abbia la sfrontatezza di dire questo mondo, nel suo essere tragico, estatico o gioioso che sia, una poesia attuale, che non abbia paura del proprio essere politico, e che non lo sia per consuetudine, per interessi di parte e di partito, una poesia psicoattiva, una poesia che si regga su allegorie indeterminate dal gioco di rifrazione infinita dei sensi figurali nell’attrito tra  le culture del mondo, una poesia d’archetipi, di sincronie, una poesia basata sul montaggio, sulla sedimentazione di materiali eterogenei, sul processo, sulla costruzione, sul precipitato semantico, sulla consapevolezza metrica, una poesia ibrida e ibridata a partire dalle arti, ma che non giustifichi con tale ibridazione la propria miseria, una poesia disinibita che non si conformi ai paradigmi dell’ora, che costruisca le proprie genealogie altre, una poesia sintetica, fecondata dalla tecnica in avvenirismi scevri di rozze nostalgie e che tenti il primitivismo più violento, chiamando in causa il processo di artificializzazione totale in atto, una poesia come traccia del passaggio di energie, forze e intensità, una poesia come secolarizzazione del rito, ultima forma di sacralità concessa a questo tempo vinto dalla religione della tecnica e della scienza, una poesia come mistero, come eccedenza, come mito in cui la zona d’ombra tracimi oltre il chiaro, una poesia aperta al dialogo e che rigetti la partigianeria sterile in nome della convivenza dell’alterità in un progetto di testimonianza complesso. Una poesia come menzogna, per parossismo e consustanzialità al processo di falsificazione insito nel linguaggio, una poesia come verità, quindi. Una poesia che preferisca essere invece che rappresentare.

 

Questo programma minimo sarà adempiuto con la parzialità di chi è implicato in prima persona nella costruzione dell’immaginario poetico attuale, nella speranza di riuscire a tracciare i profili incongrui della bellezza barbarica che sta mutando questa terra sin troppo prosastica, nella convinzione che spetti anche alla poesia il compito di chiarire il senso di questa nostra minima avventura umana ponendo il lettore d’innanzi a un’evidenza, l’evidenza del reale.

 

 

 

  • Come è nato il rapporto tra te e l’editore? Quando è nata l’idea di una nuova collana di poesia?

L’interesse per l’editore Oèdipus è di vecchia data, risale all’epoca dei miei studi universitari, per cui prima di qualsivoglia mio coinvolgimento diretto come autore o curatore, ricordo da studente l’impazienza con cui si attendeva l’uscita di un nuovo volume della collana curata da Mariano Baino, i megamicri, ricordo, ormai terminati gli studi  e già direttore a mia volta di una collana di poesia, l’emozione suscitata dall’uscita in quella stessa collana di quello che a tutt’oggi reputo uno dei più importanti testi della nuova poesia italiana Tre opere di Florinda Fusco. Nel mentre ero attivamente alla ricerca di un editore che volesse pubblicare il mio volume Strutture e, visto quanto premesso, puoi ben immaginare quale fu il mio entusiasmo quando Cecilia Bello Minciacchi, con la quale mi ero laureato e alla quale chiesi consiglio, propose il libro a Francesco Forte, direttore di  Oèdipus, il quale accettò di pubblicarlo. In seguito ho pubblicato con la stessa sigla un secondo volume, Cassandra, un paesaggio, e proprio durante la presentazione del volume a Roma Forte accolse la mia proposta di fondare una nuova collana di poesia per la sua casa editrice, volontà che mi pervadeva dalla chiusura di Ex(t)rationecollana  di materiali verbali, che avevo diretto e fondato con Sara Davidovics per l’editore Polimata.

 

  • Chi sono gli autori che hai coinvolto nel progetto, perché hai scelto loro?

Gli autori ad ora coinvolti sono Lorenzo Durante, Vincenzo Frungillo, Federico Scaramuccia, Adriano Padua, Ada Sirente. Motivi diversi mi hanno portato al loro coinvolgimento, sicuramente però la predilezione si deve al perseguimento in ognuno di loro di un percorso poetico autonoma, irriducibile a scelte di comodo, o di gruppi, ricerche che se da una parte hanno dato vita a percorsi isolati dall’altra li ha obbligati ad una ricerca estetica verificata direttamente su un fatto formale percepito come fatto morale.

 

  • Quanto della tua visione della poesia e della tua produzione in versi si riconosce nella scelta degli autori?

Spero moltissima, credo moltissimo nella partigianeria, specie dopo il tracollo della quasi totalità delle collane di poesia italiana dei grandi editori, gestite come portatrici di valori universali ma alla fine esaurite in regionalismi, in salotti, in tribalismi e che hanno dato un’immagine totalmente falsata di quanto è accaduto negli ultimi venti anni. Meglio quanto si continua a fare nella piccola editoria da persone coinvolte direttamente nella produzione poetica, penso a Benway series, a Prufrock e a poche altre collane che danno un’idea di poesia quale emanazione diretta di alcune poetiche e che fanno un lavoro molto serio non pretendendo di rappresentare nessuna totalità. Come al solito la critica accademica, o pseudo-, italiana capisce poco e male…

 

  • Una collana di poesia può ancora ripromettersi di indicare una direzione di poetica o di visione del mondo?

Se non facesse questo cos’altro potrebbe fare, magari suo malgrado

 

  • L’invito rivolto ad autore di entrare a far parte di una collana di poesia può avere motivazioni politiche?

Sicuramente mi interessano quelle ricerche interessate ad una relazione critica con l’ora, come altrettanto sicuramente nutro diffidenza profonda per quella poesia che abitualmente si definisce civile, con quel suo pretendere un’adesione a priori al testo per un motivo etico piuttosto che estetico e che ha dato testimonianza di sé con testi per lo più deteriori,  trivialmente nostalgici quando non direttamente reazionari.

 

  • Questa che dirigi per Oedipus è la tua seconda collana di poesia: che cosa hai imparato dalla prima esperienza?

A questa domanda bisognerebbe rispondere con un trattato sulla psicologia degli autori, preferisco glissare

 

  • Che cos’ha di diverso la tua collana rispetto a quelle già esistenti in Italia? Ci sono collane che ti interessano?

Come dicevo poco fa molto mi interessano le collane partigiane, mosse da idee forti di poetica, anche se magari sono idee che non condivido, molto poco quelle, e sono la maggior parte, che disegnano solamente la mappa dei favoriti, o dei favori, di chi la dirige e che per lo più hanno poco di letterario e tanto dei piccoli traffici dell’accademia italiana

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