Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 15) The Ladybug Transistor

The Ladybug Transistor

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Chissà, un giorno avrò forse accumulato abbastanza materiale per pensare di poter trasformare questa rubrica settimanale in qualcosa di più. Magari un libricino da allegare alle patatine. L’idea mi frulla in testa praticamente da una vita; ma della congregazione del mio corpo è solo la testa a rifuggire – con tutta la sicumera del suo peso – l’obbligo morale dell’ozio. L’indolenza è il terreno più fertile tra tutti: l’humus è ricco, carico di stratificazioni di tempi accidentali, di sali preziosi e dimenticati, di grandi imprese fallite… eppure, lasciato al tempo, tutto questo materiale organico rifluisce nell’elementare e nutre i nuovi germogli. Niente invece è più nocivo d’una deadline; la scadenza è mortale, e la parola ne conserva la lezione.

A cosa dedicare questo eventuale non-sforzo? Beh, chessò: alla selezione non-accidentale dei miei 100 dischi più accidentali (di un’accidentalità equipollente a quella della vita). “Miei”, certo, non sarebbe un criterio valido per rivendicare un interesse più diffuso, se non ti capita d’essere John Peel o Joe Boyd. O Antonella Clerici. Però è lì il punto, e non si deve barare: rintracciare una linea comune tra tutti i dischi che in quel certo particolar momento ti hanno fatto pensare “ecco” – e non un ecco di semplice approvazione – non è niente altro che una gentilezza che fai al pubblico dei lettori.
“Ecco” presuppone un riconoscimento; Platone furbamente parlava di “ricongiungimento di metà originariamente divise” per definire quella potentissima ma vaga attivazione emotiva che scatta nel realizzarsi dell’innamoramento. Forse usiamo troppo facilmente la parola “innamoramento” quando parliamo d’un disco che c’è piaciuto… probabilmente un “mi piace molto” basterebbe. Perché poi sussiste una differenza rimarchevole tra un disco che c’è piaciuto e uno di cui ci siamo innamorati. Mi piace Notre Dame di Paris, mi piace la Cappella Sistina ma sono invece innamorato della mia stanzetta d’infanzia, dove le mie prime percezioni germogliarono. Ed era una banale stanzetta per bambini: lì conobbi per la prima volta la musica. Mio padre possedeva tanti 45 giri e mi permetteva di ascoltarli su di un piccolo mangiadischi rosso. Ricordo che il mio preferito era “Eternità” dei Camaleonti e lo suonavo decine di volte al giorno, forse di più. Insomma “riconoscere” una musica significa sentirla farsi parte integrante di un’esperienza, ove anche di quell’esperienza non si serbi memoria concreta. Vi sono, ad esempio, dei luoghi in cui non sono mai stato fisicamente ma che ho frequentato costantemente nel sogno. Alcuni permanenti, ritornanti. Altri ch’è bastato “vedere” una volta per essere fissati per sempre, e che tornano nella memoria desta come si trattasse di luoghi reali. Ecco dunque, come certi dischi attecchiscono nel mio corpo: sobillano determinati neuroni che riattivano tale (ipotetica) rimembranza. Il discorso è ovviamente più complesso, come lo sono in fondo tutti i discorsi bislacchi che si cerchi di render precisi. Vabbè, ci lavorerò per un’eventuale introduzione.
Nel frattempo il disco che ha sollevato tutta questa polvere ha un’identità precisa, ed è “The Albemarle Sound” dei Ladybug Transistor. Fortunatamente per il mio inconscio, è anche un disco perfetto: niente che appartenga al mio esclusivo, idiomatico curiosare nel delirio ne costituisce il motivo dell’inclusione. In più: è un disco che fa scattare, come la neve in una palla, una tempesta di buone vibrazioni. E a questo proposito mi capita di pensare a questo disco come fosse imparentato alle cose migliori dei Beach Boys, ma spogliato di tutta la pompa magna delle armonizzazioni vocali, di quel senso di grandiosità celebrativa dell’adolescenza californiana. Intanto perché Gary Olson e accoliti stanno sulla costa opposta degli States, e poi perché la malinconia ne è il tratto distintivo, anche quando qualche pezzo tenta di essere più gioviale e andante, sarà per la scelta dei suoni (quanto amabilmente vintage), per la voce meditabonda e come carica del peso delle proprie divagazioni – “The Albemarle Sound” è un disco invernale che sa di termosifoni accesi e finestre che danno su tetti imbiancati. Che sa di banda di paese e di Calexico-giocattolo. E in più, è un paesaggio cristallizzato nella purezza vivificante del ricordo: un presepe illuminato che incanta gli occhi d’un bambino incline alla fantasticheria.
Ma soprattutto: un disco di canzoni meravigliosamente compiute, figlie di una penna che è minore solo perché il mondo preferisce chi mostra le penne a chi le custodisce nel cassetto dei segreti.

Alessandro Calzavara


In copertina: The Albemarle Sound (front cover, The Ladybug Transistor, 1999).

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