À la mode d’aujourd’hui, su Contro l’antimafia, di Giacomo Di Girolamo, Il Saggiatore (2016)

di Alfredo Nicotra

Il giornalismo è in crisi, non è difficile comprenderne le ragioni, basta scorrere sul web gli articoli che elencano le cifre e i dati, riportano le modalità di contratto, il prezzo pagato a “pezzo”, i rapporti delle redazioni con i collaboratori. È un lavoro sottopagato quando non mero volontariato. I cui competitor aumentano ogni anno, e devono a farsi avanti a gomitate. E per i quali la ricompensa è la visibilità, apporre la propria firma in calce a un quotidiano nazionale o a una rivista autorevole. Una professione sempre più appannaggio di pochi, remunerati spesso dal welfare famigliare; un hobby praticato per diletto ma di classe, che porta con sé, è inevitabile, una visione del mondo manichea.

Già in Minima moralia (1954) Adorno mostrava Proust come oggetto di strali simili da parte dei suoi “stomachevoli” colleghi. Tuttavia quella del giornalista sembra oggi diventata l’attività meno proustina al mondo. Qui ci troviamo in un’atmosfera flaubertiana à la Madame Bovary.

E in provincia, nel cuore del riscatto piccolo-borghese. E cosa fa più provincia della provincia se non il Meridione? Luogo dell’immaginario esotico per eccellenza che da mezzo secolo esporta in tutta Italia i suoi due prodotti più tipici, non le arance, ma i giornalisti e l’antimafia. Con la caratteristica che da un po’ di decenni questi prodotti culturali sono dati in offerta, scontati al prezzo di uno, nella figura del giornalista antimafia.

Con l’antimafia si sono fatti affari e avviate carriere fortunatissime. Magistrati, politici, imprenditori e, ovviamente, giornalisti (basta scorrere gli scaffali delle librerie o il colophon delle maggiori testate nazionali per averne contezza). Una vertigine di nomi che sale dagli anni ’80 a oggi, dalla seconda sanguinosa guerra di mafia, a est e a ovest della Sicilia.

Ciò non dovrebbe scandalizzare, soprattutto chi vive il territorio ‒ quartiere o periferia di una qualsiasi città siciliana ‒. Entrate in un bar, ordinate un caffè, ascoltate quattro chiacchiere e poi andate a vedere che cosa stanno combinando le associazioni antiracket della zona. Sperando che quel caffè non vi faccia venire il bruciore di stomaco. Lo sanno tutti, ovviamente, ma a quanto pare non i giornalisti siciliani.

Come risvegliati da un lungo sonno, oggi le loro voci si uniscono al coro tragico che canta il cadavere straziato dell’antimafia. Davanti a un pubblico più avvezzo però al Teatro dei pupi. E lanciano urla accorate contro quell’ultimo parto dell’iperbolicità siciliana che è la “mafia dell’antimafia”. Perifrasi seducente e fumosa come le volute delle chiese di Noto o di via dei Crociferi a Catania, un’escrescenza del pensiero tipica di quel barocco isolano che non ha mai temuto l’imbarazzo per il gusto del bizzarro, del paradosso e dell’ossimoro più sfacciati.

Mi fanno quindi imbrogliare la testa e il pensiero i libri e le denunce di quei giornalisti che solo nelle ultime ore e negli ultimi mesi, di colpo, hanno puntato il dito contro il caravanserraglio che è diventata l’antimafia. In essi sono descritti gli aneddoti e svelati i volti di quanti ne hanno ingrossato le file per un tornaconto personale, facendone un business e una rendita di potere. Un’oligarchia di carrieristi dell’antimafia, di professionisti e di rappresentanti delle diverse associazioni e delle istituzioni che circondati da un’aura di legalità la hanno resa un’attività redditizia, intercettando i fondi dei bandi europei e regionali o avvantaggiandosi nel “libero” mercato attraverso l’imposizione di un etica ricattatoria. Ciò che però in queste accuse si dimentica spesso di dire è che i primi (e i meno sprovveduti) ad aver fatto carriera connotandosi alla stregua di paladini dell’antimafia sono stati i giornalisti stessi. Il libro del giovane giornalista siciliano Giacomo Di Girolamo, Contro l’antimafia, edito da il Saggiatore (2016), racconta questa storia.

Ma qual è la novità di questa narrazione e cosa aggiunge alla retorica consueta sulle colpe e i vizi dell’antimafia da buffet? Innanzitutto, il claim, perché tale è il titolo. Uno slogan che colpisce destabilizzando le certezze dei cittadini onesti. “Contro l’antimafia” (come se ce ne fosse una sola) comunica l’anticonformismo e il disprezzo per quell’understatement noioso e perbenista delle celebrazioni. Tuttavia il lettore più scafato riconosce che con questa operazione siamo al livello del marketing, per il vezzo abusato di shoccare il lettore e épater le bourgeois.

Lo stile e il registro pasoliniani. Di cui l’autore ricalca il declamatissimo Io so col suo andamento anaforico tutto concentrato a dare un valore di autenticità a una singolare esperienza. Annunciato già nel Prologo: “Io non ho mai avuto paura. Adesso sì”. Il libro, che vuole essere un saggio ma ha la forma di una lunga una lettera “di resa” al nemico, Matteo Messina Denaro, è in gran parte egoriferito e scritto dalla spècola della propria soggettività. Ma ciò che sarebbe una qualità sul piano narratologico dell’autofiction e del patto di finzione con il lettore si rivela alla lunga un limite. Screditare banalizzando in massa le realtà variegate raccogliendole tutte sotto l’etichetta sbiadita di “movimento antimafia” è riduttivo. Non tutte queste vivono con e per i finanziamenti pubblici. E in genere hanno modalità specifiche di operare sul territorio. A Catania, ad esempio, un’esperienza come i Siciliani giovani (un periodico), coordinato dall’associazione G.A.P.A, lavora con serie difficoltà in uno dei quartieri più emblematici della città, senza finanziamenti né pubblici né privati ma solo con il sostegno dei propri volontari.

Il tono tragico dalle sfumature savianesche: “C’era una nube rossa di sangue che avvolgeva la Sicilia. Ci faceva girare la testa”. Così intriso del lirismo del superstite e del testimone di una guerra. Un afflato tragico verso di sé quanto a volte canzonatorio e baldanzoso verso l’opera altrui.

Infine l’enfatizzazione del nemico, il capo invisibile a cui si rivolge l’autore: “te, che sei il male”. Che emerge da queste pagine come una figura miltoniana, assoluto e invincibile.

Da questa “pantomima della legalità”, dove tutti recitiamo a soggetto, l’autore non ha escluso nessuno. Tra comprimari e “guest star”, ecco il ritratto di “una piccola mafia”, intenta a stipulare “accordi nell’ombra per spartirsi soldi e potere”. I giudici, i magistrati, i politici, gli imprenditori, gli avvocati, i parenti, i presidi delle scuole, i musicisti e gli artisti antimafia; l’associazione antimafia, le associazioni antiracket, le aziende che gestiscono i beni confiscati, finanche la Trattativa e le Agende rosse (“La famosa agenda rossa. La reliquia per eccellenza”). È tutto un vorticare “di riti e mitologie, di gesti e simboli svuotati di significato. In questo circuito autoreferenziale, che mette in mostra le sue icone – il prete coraggioso, il giornalista minacciato, il magistrato scortato – e non aiuta a cogliere le complesse trasformazioni del fenomeno mafioso, si insinuano impostori e speculatori. Intorno all’antimafia ci sono piccoli e grandi affari, dai finanziamenti pubblici ai «progetti per la legalità» alla gestione dei beni confiscati, e accanto ai tanti in buona fede c’è chi ne approfitta per arricchirsi, per fare carriera o per consolidare il proprio potere, in nome di un bene supremo che assolve tutto e tutti.”

“L’industria dell’antimafia è la nostra new economy, un’invenzione originale che ha sovvertito le regole del mercato e della concorrenza.”

Tutto vero, per carità, però, ecco… ci sarà sempre da qualche parte un imbecille pronto a imbracciare una frase simile decontestualizzandola dalla buonafede del suo autore, così come ancora accade con l’espressione scivolosa di Sciascia.

Che ci sia una lobby dell’antimafia arroccata nel proprio privilegio è verificabile ma altrettanto lo è il fatto che spesso molte delle aziende confiscate vivono in seguito una sbalorditiva penuria di commesse. Come si considera questa coincidenza? Non subiscono una penalizzazione ingiusta e una distorsione delle più elementari regole del cosiddetto libero “mercato”?

All’autore preme infine suggerire anche una proposta. L’invito immancabile alla responsabilità individuale e a leggere la complessità del fenomeno. Concentrandosi tutti nel promuovere la cultura dal “basso”.

Ho visto nascere e sfiorire i giornali di quartiere della mia città perché nessuno osava comprare una pagina pubblicitaria sulle loro colonne. E i giornalisti fare un secondo lavoro pur di mantenere liberi questi giornali. Senza mettersi in cattedra né distribuire patenti di autenticità a nessuno. Lavorando nel silenzio generale dell’informazione che conta, e senza la minima prospettiva di carriera. Altrettanti ne sto vedendo oggi avanzare le più aspre critiche ai paludamenti dell’antimafia proprio dai giornali più paludati, trovando ospitalità nella buona editoria e tra le riviste più prestigiose del paese.

Poi, come spiega l’autore, “dal libro nasce l’intervista in televisione, il tour di presentazioni nel paese, a teatro e nelle scuole, e poi da lì, magari, la consulenza per qualche programma d’inchiesta, una fiction, l’idea per un film, o un altro libro.” E così via, in una cattiva infinità.

“Come tira la mafia, in libreria!”. Vero! Ma anche la critica all’antimafia sembra andare di gran carriera.

 

 

Giacomo Di Girolamo, Contro l’antimafia,
pp. 243, € 17
Il Saggiatore, Milano 2016

2 pensieri su “À la mode d’aujourd’hui, su Contro l’antimafia, di Giacomo Di Girolamo, Il Saggiatore (2016)

  1. Piuttosto che argomentare ‘autour du pot’, il recensore potrebbe tralasciare la masturbazione cerebrale per soffermarsi senza orpelli sul valore della rigorosa e sconvolgente denuncia di Giacomo Di Girolamo.

  2. Piuttosto che argomentare ‘autour du pot’, il recensore potrebbe tralasciare la masturbazione cerebrale per soffermarsi senza orpelli sul valore della rigorosa e sconvolgente denuncia di Giacomo Di Girolamo.