FLASHES E DEDICHE (a cura di Giulio Maffii) – 7. MARIO LUZI

FLASHES E DEDICHE

UNA DEDICA CHE NON LAVA LA MENTE – MARIO LUZI

Sono 11 anni che Mario Luzi ci ha lasciato. Cosa ricordare di lui? Ma dobbiamo per forza “ricordare”? Cerchiamo piuttosto di cambiare prospettiva, di non considerare la figura fisica, ciò che è umano è destinato a scomparire. La poesia è una dimensione ulteriore che sopravvive ai poeti stessi. Il tema dell’inutilità dei poeti è stato già delineato. Se pensiamo alla sacralità della vita, all’importanza di questa aleatoria serenità chiamata poesia, ci poniamo domande alle quali ogni risposta data è corretta, sebbene non importi, sebbene sia la nostra vita e basta . Chiunque cerca di essere felice o perlomeno sereno:

Questa felicità promessa o data
m’è dolore, dolore senza causa
o la causa se esiste è questo brivido
che sommuove il molteplice nell’unico
come il liquido scosso nella sfera
di vetro che interpreta il fachiro.
Eppure dico: salva anche per oggi.
Torno torno le fanno guerra cose
e immagini su cui cala o si leva
o la notte o la neve
uniforme del ricordo

E la serenità la si trova nel dialogo quotidiano, nel confronto, nel passaggio delle nostre parole. Luzi nel 1963 comprese ciò, pubblica “Nel magma”, uno spartiacque. Quindi intervengono personaggi, il sistema dialogico accompagna tutto il lavoro luziano ed appare una commistione tra un girone dantesco e la realtà degli anni 60 realizzando uno dei capolavori della poesia italiana:

La nebbia ghiacciata affumica la gora della concia
e il viottolo che segue la proda. Ne escono quattro
non so se visti o non mai visti prima,
pigri nell’andatura, pigri anche nel fermarsi fronte a fronte.
Uno, il più lavorato da smanie e il più indolente,
mi si fa incontro, mi dice: Tu? Non sei dei nostri.
Non ti sei bruciato come noi al fuoco della lotta
quando divampava e ardevano nel rogo bene e male”.
Lo fisso senza dar risposta nei suoi occhi vizzi, deboli,
e colgo mentre guizza lungo il labbro di sotto un’inquietudine.
Ci fu solo un tempo per redimersi qui il tremito
si torce in tic convulso o perdersi, e fu quello.
Gli altri costretti a una sosta impreveduta
dànno segni di fastidio, ma non fiatano,
muovono i piedi in cadenza contro il freddo
e masticano gomma guardando me o nessuno.
Dunque sei muto? imprecano le labbra tormentate
mentre lui si fa sotto e retrocede
frenetico, più volte, finché‚ è là
fermo, addossato a un palo, che mi guarda
tra ironico e furente. E aspetta. Il luogo,
quel poco ch’è visibile, è deserto;
la nebbia stringe dappresso le persone
e non lascia apparire che la terra fradicia dell’argine
e il cigaro, la pianta grassa dei fossati che stilla muco.
E io: E’ difficile spiegarti. Ma sappi che il cammino
per me era più lungo che per voi
e passava da altre parti Quali parti?
Come io non vado avanti,
mi fissa a lungo ed aspetta. Quali parti?
I compagni, uno si dondola, uno molleggia il corpo sui garetti
e tutti masticano gomma e mi guardano, me oppure il vuoto.
E’ difficile, difficile spiegarti.
C’è silenzio a lungo,
mentre tutto è fermo,
mentre l’acqua della gora fruscia.
Poi mi lasciano lì e io li seguo a distanza.

Ma uno d’essi, il più giovane, mi pare, e il più malcerto,
si fa da un lato, s’attarda sul ciglio erboso ad aspettarmi
mentre seguo lento loro inghiottiti dalla nebbia. A un passo
ormai, ma senza ch’io mi fermi, ci guardiamo,
poi abbassando gli occhi lui ha un sorriso da infermo.
O Mario dice e mi si mette al fianco
per quella strada che non è una strada
ma una traccia tortuosa che si perde nel fango
guardati, guardati d’attorno. Mentre pensi
e accordi le sfere d’orologio della mente
sul moto dei pianeti per un presente eterno
che non è il nostro, che non è qui né ora,
volgiti e guarda il mondo come è divenuto,
poni mente a che cosa questo tempo ti richiede,
non la profondità, né l’ardimento,
ma la ripetizione di parole,
la mimesi senza perché né come
dei gesti in cui si sfrena la nostra moltitudine
morsa dalla tarantola della vita, e basta.
Tu dici di puntare alto, di là dalle apparenze,
e non senti che è troppo. Troppo, intendo,
per noi che siamo dopo tutto i tuoi compagni,
giovani ma logorati dalla lotta e più che dalla lotta, dalla sua mancanza umiliante.
Ascolto insieme i passi nella nebbia dei compagni che si eclissano
e questa voce venire a strappi rotta da un ansito.
Rispondo: Lavoro anche per voi, per amor vostro.
Lui tace per un po’ quasi a ricever questa pietra in cambio
del sacco doloroso vuotato ai miei piedi e spanto.
E come io non dico altro, lui di nuovo: O Mario,
com’è triste essere ostili, dirti che rifiutiamo la salvezza,
né mangiamo del cibo che ci porgi, dirti che ci offende.
Lascio placarsi a poco a poco il suo respiro mozzato dall’affanno
mentre i passi dei compagni si spengono
e solo l’acqua della gora fruscia di quando in quando.
E’ triste, ma è il nostro destino: convivere in uno stesso tempo e luogo
e farci guerra per amore. Intendo la tua angoscia,
ma sono io che pago tutto il debito. E ho accettato questa sorte.
E lui, ora smarrito ed indignato: Tu? tu solamente?
Ma poi desiste dallo sfogo, mi stringe la mano con le sue convulse
e agita il capo: O Mario, ma è terribile, è terribile tu non sia dei nostri.
E piange, e anche io piangerei
se non fosse che devo mostrarmi uomo a lui che pochi ne ha veduti.
Poi corre via succhiato dalla nebbia del viottolo.

Rimango a misurare il poco detto,
il molto udito, mentre l’acqua della gora fruscia,
mentre ronzano fili alti nella nebbia sopra pali e antenne.
Non potrai giudicare di questi anni vissuti a cuore duro,
mi dico, potranno altri in un tempo diverso.
Prega che la loro anima sia spoglia
e la loro pietà sia più perfetta.

Giulio Maffii


In copertina: Mario Luzi.

3 pensieri su “FLASHES E DEDICHE (a cura di Giulio Maffii) – 7. MARIO LUZI

  1. “E’ triste, ma è il nostro destino: convivere in uno stesso tempo e luogo
    e farci guerra per amore. Intendo la tua angoscia,
    ma sono io che pago tutto il debito. E ho accettato questa sorte.
    E lui, ora smarrito ed indignato: Tu? tu solamente?
    Ma poi desiste dallo sfogo, mi stringe la mano con le sue convulse
    e agita il capo: O Mario, ma è terribile, è terribile tu non sia dei nostri.
    E piange, e anche io piangerei
    se non fosse che devo mostrarmi uomo a lui che pochi ne ha veduti.”
    Caro Giulio, sai qual’è il dramma di questo passaggio che ho sopra evidenziato? La profezia. Una profezia che Luzi aveva fatto qualche anno indietro e che adesso si sta rivelando in tutta la sua drammaticità. Ceronetti qualche tempo indietro ha detto:” Siamo stati sconfitti” e voleva dire che la classe operaia è stata sconfitta. Qualche tempo indietro. Ma Luzi aveva previsto questo molti anni prima. E si è la classe operaia (e dentro ci metto i finti e falsi colletti bianchi illusi che identifiandosi con la borghesia fossero diventati borghesi). Luzi l’aveva previsto che è sempre la classe operaia che ancora una volta paga “tutto il debito” ed anche i costi della crisi, conseguenza della rinuncia di tanti di continuare a lottare! Come le pecore al macello, vedono quello che succede ai loro compagni davanti ma si lasciano sgozzare senza fare nulla.

  2. A MARIO LUZI

    Seduto su questa sedia
    assorbo i pensieri
    e li trasformo in versi.
    Sei tu in me che vivi,
    tu che morto non sei
    e appari all’improvviso
    negli angoli di questa casa
    mi guardi e mi accarezzi.

    Armando
    Montalcinello 21.8.2014

    Salvatore Armando Santoro

    Seduto alla scrivania dove sedeva Mario Luzi, scrivendo sul quaderno dei suoi appunti, in casa di Caterina Trombetti a Montalcinello!