di Diego Conticello
La poesia di Vittorio Bodini (Bari, 1914 – Roma, 1970) è stata sempre caratterizzata da una spiccata propensione ad un eclettismo che coniuga in sé le stagioni più disparate e rilevanti del Novecento italiano ed europeo, a partire dalla vicinanza al futurismo marinettiano, per proseguire con gli pseudo-calchi affini al concettismo di marca iberica, al barocchismo quasi manierista, fino al surrealismo e simbolismo “maledetto” e astrattizzante, giungendo persino al brevilineo ermetico ed, infine, allo sperimentalismo di una poesia “industriale” e tecnologica perfettamente aderente alle definizioni da Menabò. Bodini è stato anche uno dei maggiori traduttori italiani di poesia spagnola, veicolando al pubblico italiano poeti quali García Lorça, Rafael Alberti, Francisco de Quevedo, Gòngora.
Anche sotto il profilo delle pubblicazioni è possibile distinguere almeno due periodi principali. Il primo, raccolto in La luna dei Borboni, è senza dubbio proteso ad un racconto storico amaro ma accorato del “Sud”, in una sorta di rovesciamento antiunitario o comunque scettico rispetto ad una presunta coesione mai di fatto raggiunta, pur tuttavia pregno di uno sfavillante colorismo ed una propensione figurativa di rara suggestione. Il secondo, quello di Metamor, si fa invece se possibile ancora più intimo, pur dando abbrivio ad una stagione “sperimentale” e “industriale” in cui si attenua il lucore romantico delle prime liriche, ma nel contempo si rafforza la variopinta congerie dei tarli esistenziali.
Voglio proporre qui un testo, intitolato Nei viali ovali, che sintetizza perfettamente tutte le peculiarità delle stagioni poetiche dell’autore, tratto da Metamor, libro che già dal titolo compendia in sé molteplici significati (meta-amore, metamorfosi, mezzo morto).
I bagnini
i muratori
i meridionali emigrati al Nord
propagano il testamento di un’aurora perduta
fra le rampe d’un coito che s’affaccia sul nulla.
Si punge elettrizzata la carne ai chiodi freschi
di uccelli come fari usciti in cerca di cibo.
Come un gallo avvolto in una bandiera
i bei capelli spavaldi
intagliano finemente una lagrima
nido e bersaglio a non più vulnerabili stelle
balbettando stazioni nei tuoi occhi
o sussurrando purpuree colombe
nei viali ovali non fitti di viole.
La triplicazione iniziale con inarcatura e articolo determinativo plurale in anafora sottolinea emblematicamente non solo il rallentamento del ritmo, che mima un evidente inaridimento (leggasi infertilità come mancata industrializzazione) nella condizione generale del meridione «aurora perduta/ fra le rampe d’un coito che s’affaccia sul nulla.» (e come non ricordare la simile locuzione ripelliniana: «sciantosa di varietà, sulla riva/ del Nulla»), ma anche una prospettiva di progressivo fatalismo, enfatizzata anche da una rinnovata – ma sempre ahimé tristemente attuale – via crucis di depauperamento perpetuatasi di generazione in generazione («Si punge elettrizzata la carne ai chiodi freschi/ di uccelli come fari usciti in cerca di cibo»).
La similitudine di marca surrealista apre la seconda parte a delineare una sorta di elogio funebre del meridione, veicolato anche dall’immagine da bestiario biblico della colomba, ad introdurre il verso finale che, attraverso la rima interna e la variatio, rinforza una chiusa dal sapore sperimentalista ma, al contempo, fortemente figurale che mette in evidenza, anche col ricorso al simbolo luttuoso visivo in sineddoche/sinestesia (il colore richiamato dal fiore), la definitiva ed inalterabile sconfitta di un popolo e di tutta un’area ripetutamente vessata e deprivata attraverso le ere storiche.