Da Lampedusa a Berlino: Fuocoammare

Fuocoammare 2

Orso d’oro al Festival di Berlino, “Fuocoammare” è una lezione di cinema sulla visione. Su quanto sia necessario, per ritornare ad avere occhi nuovi e non assuefatti, sgombrare il linguaggio filmico da tutto ciò che enfatizza, spettacolarizza e funge da anestetico, in realtà, nel raccontare l’orrore.

Così, il nuovo film di Gianfranco Rosi, già regista di cinque documentari pluripremiati, tra i quali il Leone d’oro “Sacro Gra”, si immerge nella lenta esistenza di Lampedusa grazie a un lavoro certosino di un anno e racconta due mondi paralleli che non si incontrano mai: quello del ragazzino Samuele Puccillo, armato di fionda e a disagio in mare, nonostante le sue radici familiari siano nel segno della pesca e della vita dura dei pescatori, e quello dei migranti che arrivano sui barconi. Vivi o morti nelle stive, esausti e irregimentati in un sistema che sarebbe ipocrita chiamare dell’accoglienza, i migranti vengono restituiti alla loro dimensione di autentica umanità per merito di una macchina da presa che documenta ed esplora senza tic visivi precostituiti e musiche enfatiche.

 

Da qui la lezione di una regia che insegue l’immagine inedita con una potenza del linguaggio cinematografico apprezzata alla Berlinale dalla giuria presieduta da Meryl Streep. Nello stesso tempo, “Fuocoammare” descrive una realtà fuori dalla facile quotidianità di Internet: dai tempi lunghi dell’anziana vedova di un pescatore alle dediche alla radio per riascoltare antiche canzoni siciliane (come quella che dà titolo al film) e il divagare creativo del piccolo Samuele, tra fionde, occhi pigri, giochi da inventare e un’ansia sotterranea che non lo abbandona.

Il mare come nota dominante, il buio e la luce, fondali e visioni sottomarine – resi con incisività cinematografica da direzione e fotografia di Rosi, con il montaggio di Jacopo Quadri – fanno da sfondo esistenziale all’alternarsi della vita e della morte. Spiccano la testimonianza rap di un migrante, tra torture in Libia e nuove speranze, e quella del medico Pietro Bartolo, che non si abitua alla tragedia quotidiana. Un punto di vista che il regista intende stimolare attraverso una narrazione secca, che evita il già visto di reportage e inchieste.

Per Emiliano Morreale (http://espresso.repubblica.it/visioni/2016/02/18/news/lampedusa-narrata-con-amore-1.250993), “Rosi pecca semmai di troppo pudore. Il suo racconto, che evita ogni scorciatoia e ogni enfasi, sembra mancare dell’energia decisiva, non trova un’alternativa estetica all’altezza della tragedia che sfiora, uno sguardo nuovo. Ma forse era chiedergli troppo”. Questa sensazione si percepisce a tratti, è vero, ma in altri momenti si coglie uno sguardo profondo su ambienti ed esseri umani che rimane dentro, senza agganciarsi a consueti schemi narrativi.

Marco Olivieri

Una parte dell’articolo è stata pubblicata dal settimanale “Centonove” del 24 febbraio 2016, rubrica Visioni.

Fotografie tratte dalla pagina Facebook del film.

 

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