THE HATEFUL EIGHT: Il Cinema del venerdì – di Francesco Torre

THE HATEFUL EIGHT

Regia di Quentin Tarantino. Con Samuel L. Jackson (Maggiore Marquis Warren), Kurt Russell (John Ruth), Jennifer Jason Leigh (Daisy Domergue), Walton Goggins (Chris Mannix), Tim Roth (Osvaldo Mobrey), Michael Madsen (Joe Gage), Bruce Dern (Generale Sanford Smithers), Demian Bichir (Bob il messicano), Channing Tatum (Jody).
Usa 2015, 167’.
Distribuzione: 01.


eight

Uno stormo di uccelli in volo, una lenta panoramica su un paesaggio montano innevato, l’approssimarsi di una tormenta. Prodromi di un’alba che un’introduzione musicale solenne e la presenza in campo di un crocifisso ligneo impalato nel nulla vogliono tragica e fatale (ogni riferimento cinefilo non è puramente casuale).

Wyoming, circa un decennio dopo la fine della Guerra Civile Americana. A bordo di una diligenza diretta a Red Rock, un cacciatore di taglie con una criminale da consegnare al boia al seguito decide di condividere il viaggio con un ex maggiore nero dell’Unione e con un poco di buono di fede sudista che sostiene di essere il nuovo sceriffo della città.

I primissimi piani espressivi, le traiettorie di ripresa diagonali, i totali dai tempi dilatati: il formato 70 mm voluto da Tarantino per le riprese del suo ottavo film non è semplicemente un atto di grandeur, ma – come già “The Master” di Paul Thomas Anderson – un modo per scandagliare il paesaggio in continuo movimento del volto umano (e non solo: ipnotizzanti i dettagli in rallenty dei cavalli al galoppo). Il profilmico, d’altra parte, non sembra essere predominante in questa prima parte del film: i continui riferimenti socio-politici, l’esplicito richiamo ad una condizione di guerra eterna di tutti contro tutti in uno stato di natura, l’estrema teatralità della messa in scena e dei lunghi, a volte estenuanti dialoghi rivelano piuttosto la necessità di rivendicare il predominio della parola sull’immagine, e contribuiscono a definire i contorni di un disegno metaforico smaccatamente esibito – addirittura la rievocazione del Padre della Patria Abramo Lincoln! – ma probabilmente non del tutto leggibile per chi non vive quotidianamente il sincretismo culturale della società americana (a maggior ragione se il doppiaggio italiano azzera o ridicolizza ogni sfumatura linguistica).

Se l’arrivo all’emporio di Minnie dei 4 viaggiatori, e il conseguente incontro con altrettanti loschi e giustamente “odiosi” figuri costringe ad un’evoluzione della trama, con la discesa verso il ripido e scivoloso pendio della carneficina, pure inizialmente lo schema di rappresentazione non cambia: divagazioni filosofiche sul tema della giustizia (che sembrano chiamare in causa un campione della letteratura e del teatro occidentali del ‘900, Friedrich Dürrenmatt), (auto)citazionismo audace (il personaggio interpretato da Kurt Russell viene definito una “iena”, anche con lo sguardo rivolto a Carpenter), rivendicazioni politiche e guerre tra bande. Tarantino regista continua ad esibire un découpage classicheggiante, insolito, limitando l’uso dei movimenti di macchina e ricorrendo al cambio di fuoco per mantenere la staticità di profondi totali. Così, quando sulle note di “Astro del Ciel” (suonata al pianoforte da un messicano, ça va sans dire), le recriminazioni superano definitivamente il livello di guardia, e con un lungo e frammentato flashback emergono dallo sfondo contemporaneamente due giganteschi topoi della poetica tarantiniana come vendetta e violenza, sembra quasi uno strappo al rigore formale fin qui sostenuto, ma più opportunamente è il momento in cui ogni menzogna – interna alla narrazione, esterna con riferimento alla messa in scena – viene fuori e l’assurdo abito neoclassico indossato fino a questo momento lascia definitivamente il posto ad una più congeniale miscela di cultura pop, un territorio immaginario in cui è possibile che Agatha Christie e Sergio Leone bevano alla stessa fonte di veleno postmoderno.

Non contento di aver radunato tutti i suoi sospetti (e con essi i rancori sopiti della società americana) come fossero i passeggeri di un Occidental Express, ora il regista pretende la propria parte, il riconoscimento di un’astuzia, di una perizia, di un’autorevole, e autoriale, presenza. Come ne “L’uomo che uccise Liberty Valance” di John Ford, mostra allo spettatore una visione alternativa di una scena precedente, superficialmente per far luce su un mistero, ma segretamente per rivelarne un altro di gran lunga più significativo. Non solo: da sceneggiatore e regista si ricicla pure nel ruolo di narratore onnisciente, poiché sarebbe sua – ancora una volta, peccato non aver visto il film in lingua originale! – la voce off che a quel punto emerge dalla colonna sonora. La fabula viene definitivamente spezzata, la riflessione socio-politica cede il passo al gioco delle narrazioni multiple (peraltro, va detto, del tutto inutilmente ai fini dell’intreccio) e, come in “Bastardi senza gloria” e “Django Unchained”, la Storia si trasforma da magistra vitae in elemento drammatico, non da approfondire a fini umanistici, alla ricerca di un senso nella progressione degli eventi, ma contro cui scagliarsi con furia vendicativa, con il piglio infantile di chi è convinto che il cinema possa ancora (ammesso che l’abbia mai fatto) redimere e purificare.
Se infatti la Guerra Civile è una delle più grandi ferite aperte della società americana, se l’odio razziale fa parte del dna della nazione, se il ruolo della donna è destinato a rimanere del tutto marginale, se infine la morale religiosa non è altro che uno sfondo o una colonna sonora utile a rendere quest’insieme più digeribile, pure dall’assemblaggio simbolico di “The hateful eight” sembra emergere piuttosto in sala un ghigno malizioso e beffardo, quello di un autore fin troppo compiaciuto della propria arguta ironia, dell’assoluta padronanza delle tecniche di scrittura e messa in scena, a tratti cinico e magniloquente, insomma un nono “odioso” che la perfetta, intelligente, dissacrante, meta-riflessiva sceneggiatura forse non aveva previsto.

La citazione: «Farti sentire in svantaggio, è il vantaggio che voglio mantenere».

Francesco Torre

UNA PARTE DI QUESTO ARTICOLO E’ STATA PUBBLICATA SUL “QUOTIDIANO DI SICILIA” DEL 18 FEBBRAIO 2016.

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