Eidetica della menzogna. La poesia di Daniele Bellomi

di Diego Conticello

Daniele Bellomi, nel suo ultimo volume di poesie dall’emblematico titolo Dove mente il fiume (Edizioni Prufrock, Rovigo 2015), traccia una sorta di anatomia del corpo distaccato/dislocato, operando una vera e propria vivisezione della parola per comprenderne l’insita mendacità (da qui a mio parere il nome del titolo). In questa analisi “a cuore aperto” anche le forme seguono un altrettanto apparente distacco e slancio dislocativo, a descrivere l’essenzialità e la sostanziale inutilità di un processo (quello dello scrivere, del creare) sempre più anch’esso in ascendente fase aberrante/alienante. La parola è dunque “corpo morto” ma Bellomi non vi si rassegna, cercando di indagarne le cause sia endogene (lingua) che esogene (pubblico, contesto, prospettive, in una parola “realtà”) in una “impressione” che intende scavare nell’essenza per registrarne la mancanza. Non è un caso dunque che in questo cenotafio alla civiltà Daniele si serva di un lessico assai intriso di tecnicismi, di calchi e di rimandi ai codici scientifici della fisica in senso lato, ma soprattutto della medicina. Mi piace ricordare qui tutta una serie di poeti-medici-scenziati che tanto ha fatto scuola con accenti lessicali e stilemici non lontani dal nostro e di cui Daniele, voglio pensare, si sia servito: Giuseppe Bonaviri, Lorenzo Calogero, Guido Ballo, fino a Cesare Ruffato o Gaetano Magro.
Così configurata questa sorta di “tassonomia della decadenza”, o “geologia eraclitea della menzogna” non ammette – se non a tratti e in maniera assai attenuata – un eccesso logoico (già peraltro richiamato da alcuni critici), ma favorisce e innesca la riflessione, l’impegno e lo sforzo (e ben venga in questo caso la fatica data dalla complessità di lettura) nel trovare un senso, rispetto a scritture che “scorrono” eguali dalla sorgente alla foce senza lasciare traccia o indurre dubbi, insinuare domande.
Chissà dunque se il senso ultimo e più profondo della poesia – come del resto della vita stessa – si annidi proprio negli interstizi fonici dei giochi paretimologici o nel modo stesso in cui vengono giustapposte le parole alla medesima maniera in cui avviene nelle legature di una partitura musicale (di “rizomi” parlerebbe il buon Deleuze), laddove il suono si prolunga e amplifica per qualche istante, rivelando e riverberando un’epifania vitale nascosta nei recessi dell’inconscio e svelando un significato più complesso e, pertanto, indecifrabile solo perché in-significante alla sua superficie. Forse una sorta di coazione a ripetere per sottolineare l’insignificanza, l’errore. E proprio nella “scelta” delle parole sta il senso, ovvero “separazione”, “cernita” di quanto di peggio esista del proprio abisso e di quello del mondo e, solo una volta registratane l’esistenza, è possibile iniziare a denunciarne la gravità, avvertendone al contempo l’attenuazione.
Dunque è proprio il gioco paretimologico fonico-lessicale a costituire il nucleo portante dell’intera raccolta, ma mai a scapito del contenuto o del senso generale che anzi ne risulta maggiormente iconizzato. Si deve tuttavia compiere ancora uno sforzo se si vuole trasformare la metafora in allegoria e il “tratto” in “intero”, ammesso che lo si voglia fare e che piuttosto la cifra ricercata di poetica non sia proprio quella del lacerto che rispecchia questa società già troppo scissa, aberrata, alienata («daranno un occhio mentre crolla, crawl, fin dove strisciano/va bene. vedi come si sfogliano al discount […] quando hanno da eseguire, sono serial […] il loro/ andare è frequente, groundless, se grondano, pensando…»). Non a caso a certificare tale prassi nella poesia di Daniele è proprio l’uso grafico della minuscola dopo il punto, cui segue spesso l’iterazione eufonica di due lemmi giustapposti ma di etimo talvolta opposto. Potrebbe essere questo un accorgimento sin-tattico derivante dal modello di impostazione nominale supremo/estremo del Tiresia di Giuliano Mesa, forse a significare la pari importanza (o in/significanza) delle parole (non a caso la sezione in cui questo accorgimento viene più utilizzato si intitola proprio Nameless).
Ogni minutaglia, armelleria, ammennicolo corporale e fisico viene dunque registrato a monito di un germe vitale e, si spera, trasformativo – ricordiamo qui gli arcinoti “oggetti desueti” del compianto Francesco Orlando – ma non nella forma della enumeraçion caotica del cultismo iberico, bensì con raziocinante spirito tassonomico di taglio quasi post-illuministico, dacché sarebbe addirittura possibile parlare di un “correlativo figurativo”, quasi di una “es-posizione dei significanti” (e qui l’oggetto o lo spazio come merce rimanda anche a Pagliarani) addirittura archetipici o luciferini, perché in fondo il fiume-poesia che scorre sino alla foce del senso/verità va visto alla sorgente per capire che i suoi flussi continuano a mentirci («[…] la materia/ si compatta, diventa gelatina o piccolo frammento/ discontinuo, se si può, da non lasciare ignota/ ai testimoni: mani che indugiano nel replicarsi// (se si prosegue)»).

 

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