THREE WOMEN. Poema per tre voci, di Sylvia Plath (traduzione di Laura Liberale)

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Si ringrazia Anna Ravano (curatrice dell’opera della Plath per i Meridiani Mondadori) per la sua traduzione del poema, traduzione che è stata un fondamentale punto di partenza (e spesso anche d’insuperabile arrivo).
Si ringrazia Francesca Diano, scrittrice e traduttrice per avere discusso e ispirato alcune scelte di traduzione.
(Il testo originale qui: Three Women)

 

Sylvia Plath
 THREE WOMEN
 A poem for three voices
 
Tre donne
Poema per tre voci
traduzione di Laura Liberale

 

Scena: Un reparto di maternità e dintorni
PRIMA VOCE:
Sono lenta come il mondo. Sono molto paziente,
compio il mio ciclo, soli e stelle
mi guardano con attenzione.
Più personale l’interesse della luna:
passa e ripassa, luminosa come un’infermiera.
Le dispiace quanto accadrà? Non credo.
È soltanto stupita della fertilità.
Quando esco, sono un grande evento.
Non devo pensare e nemmeno prepararmi.
Ciò che in me accadrà, accadrà senza attenzione.
Sta sulla collina il fagiano;
si liscia le penne brune.
Non riesco a non sorridere per ciò che so.
Foglie e petali mi assistono. Sono pronta.
SECONDA VOCE:
La prima volta che l’ho visto, quel po’ di gocciolio rosso, non ci ho creduto.
Guardavo gli uomini che avevo attorno in ufficio. Erano così piatti!
In loro c’era un che di simile al cartone, ed io me l’ero buscata,
quella piatta, piatta piattezza da cui si originano le idee, le distruzioni,
i bulldozer, le ghigliottine, le bianche camere delle grida,
si originano incessantamente — e i freddi angeli, le astrazioni.
Sedevo alla scrivania, con calze di nylon e tacchi alti,
e l’uomo per cui lavoro ha riso: “Cos’ha visto di così tremendo?
Di colpo è diventata bianca”. E io non ho detto niente.
Vedevo la morte negli alberi spogli, una privazione.
Non potevo crederci. È così difficile
per lo spirito concepire un volto, una bocca?
Le lettere dipendono da questi tasti neri, e questi tasti neri dipendono
dalle mie dita alfabetiche, che ordinano le parti,
parti, pezzi, ingranaggi, i multipli scintillanti.
Siedo qui e muoio. Perdo una dimensione.
I treni mi rombano nelle orecchie, partenze, partenze!
Si svuota in lontananza il binario argenteo del tempo,
si svuota della sua promessa il cielo bianco, come una tazza.
Sono i miei piedi questi, echi meccanici.
Tac, tac, tac, pioli d’acciaio. Non sono ritenuta all’altezza.
È un morbo quel che mi porto a casa, una morte.
Di nuovo, questa è una morte. È l’aria,
le particelle di distruzione che assorbo? Sono un battito
che s’affievolisce sempre più, di fronte al freddo angelo?
È dunque questo il mio amante? Questa morte, questa morte?
Da piccola amavo un nome eroso dai licheni.
È dunque questo l’unico peccato, questo antico, morto amore per la morte?
TERZA VOCE:
Ricordo l’istante in cui lo seppi con certezza.
I salici raggelavano,
era bello il volto nello stagno, ma non era il mio —
aveva un’aria importante, come tutto il resto,
e a me riusciva solo di vedere pericoli: colombe e parole
stelle e piogge d’oro — concepimenti, concepimenti!
Ricordo un’ala bianca, fredda
e il grande cigno, col suo sguardo terribile,
che avanzava verso di me, come un castello, da sopra il fiume.
C’è un serpente nei cigni.
Mi scivolò accanto; il suo occhio aveva una nera intenzione.
Ci vidi il mondo dentro — piccolo, cattivo e nero,
ogni minima parola agganciata all’altra, ogni atto all’altro.
Una calda giornata azzurra aveva germogliato qualcosa.
Non ero pronta. Le nubi bianche impennandosi
mi trascinavano in quattro direzioni.
Non ero pronta.
Mancavo di rispetto.
Credevo di poter negare la conseguenza —
Ma era troppo tardi. Era troppo tardi, e il volto
continuò a formarsi con amore, come se fossi stata pronta.
SECONDA VOCE:
Ora è un mondo di neve. Non sono a casa.
Come sono bianche queste lenzuola. I volti non hanno lineamenti.
Sono lisci e impossibili, come quelli dei miei figli,
quei malatini che si sottraggono alle mie braccia.
Gli altri bambini non mi toccano: sono terribili.
Hanno troppi colori, troppa vita. Non se ne stanno buoni,
buoni come i piccoli vuoti che porto.
Ho avuto le mie occasioni. Ho provato e riprovato.
Mi sono cucita la vita dentro come un organo raro,
e ho camminato con prudenza, precariamente, come qualcosa di raro.
Ho provato a non pensare troppo. Ho provato a esser naturale.
Ho provato a esser cieca in amore, come altre donne,
cieca a letto, col mio amato tesoro cieco,
senza cercare, nel buio pesto, il volto di un altro.
Non ho cercato. Ma il volto era comunque lì,
il volto del non nato che amava le sue perfezioni,
il volto del morto che poteva essere perfetto solamente
nella sua serena pace, che solo così poteva restare santo.
E poi c’erano altri volti. I volti delle nazioni,
dei governi, dei parlamenti, delle società,
i volti senza volto degli uomini importanti.
Sono questi gli uomini da cui mi guardo:
così invidiosi di tutto quel che non è piatto! Dèi invidiosi
che vorrebbero l’intero mondo piatto a loro somiglianza.
Vedo il Padre conversare con il Figlio.
Una simile piattezza non può che essere santa.
“Creiamo un cielo”, dicono.
“Appiattiamo e puliamo dalla grossezza queste anime.”
PRIMA VOCE:
Sono calma. Calma. È la calma che precede qualcosa di tremendo:
il minuto giallo prima che s’alzi il vento, quando le foglie
rovesciano i loro palmi, i loro pallori. Qui è così tranquillo.
Le lenzuola, i volti, sono bianchi e fermi, come orologi.
Si allontanano le voci, si appiattiscono. Si appiattiscono
i loro geroglifici visibili in schermi di pergamena per proteggere dal vento.
Che segreti dipingono in arabo, in cinese!
Sono muta e bruna. Sono un seme prossimo a spaccarsi.
La brunezza è il mio morto sé, corrucciato:
non vuole essere di più, o diverso.
Il crepuscolo m’incappuccia d’azzurro ora, come una Madonna.
O colore di lontananza e oblio! —
In quale istante s’arresterà,
inghiottito dall’eterno, il Tempo, e io annegherò?
Parlo a me stessa, a me soltanto, in disparte —
imbrattata e sgargiante di disinfettanti, sacrificale.
Mi grava sulle palpebre l’attesa. Come un sonno,
un vasto mare. Lontano, lontano, sento la prima onda trascinare
verso di me il suo carico di tormento, marea ineluttabile.
E io, conchiglia, echeggiante su questa spiaggia bianca
fronteggio le voci che sommergono, il terribile elemento.
TERZA VOCE:
Sono una montagna adesso, in mezzo a donne-montagna.
I dottori si muovono tra di noi come se la nostra grossezza
spaventasse la mente. Sorridono come idioti.
Ciò che io sono è colpa loro, e lo sanno.
Si stringono alla loro piattezza come a una qualche forma di salute.
E se fossero colti di sorpresa, com’è accaduto a me?
Impazzirebbero.
E se tra le cosce mi colassero due vite?
Ho veduto la linda stanza bianca coi suoi strumenti.
È un luogo di urla. Non è felice.
“È qui che verrai quando sarai pronta.”
Le luci notturne sono piatte lune rosse. Offuscate dal sangue.
Non sono pronta per nessuna cosa.
Avrei dovuto ucciderlo quel che mi uccide.
PRIMA VOCE:
Non c’è miracolo più crudele di questo.
Sono trascinata dai cavalli, gli zoccoli ferrati.
Resisto. Resisto fino all’ultimo. Adempio un’opera.
Nero tunnel in cui si schiantano le visitazioni,
le visitazioni, le apparizioni, le facce attonite.
Sono il centro di un’atrocità.
Quali dolori, quali pene mi tocca generare?
Può una tale innocenza uccidere e uccidere? Munge la mia vita.
Per strada si seccano gli alberi. La pioggia corrode.
La sento sulla lingua, e gli orrori fattibili,
gli orrori in stato d’attesa, le madrine ignorate
col ticchettio del loro cuore, la borsa degli arnesi.
Sarò un muro e un tetto, a protezione.
Sarò un cielo e una collina di bene: Oh, lasciate che sia!
S’accresce in me una forza, un’antica tenacia.
Mi sto spaccando come il mondo. C’è una nerezza,
un maglio di nerezza. Congiungo le mani su una montagna.
L’aria è densa. Densa di questo operare.
Sono usata. A tamburo battente reclutata e usata.
Gli occhi schiacciati da questa nerezza.
Non vedo nulla.
SECONDA VOCE:
Sono accusata. Sogno massacri.
Sono un giardino di supplizi neri e rossi. Li bevo,
odiandomi, odio e ho paura. E adesso il mondo concepisce
la propria fine e vi si slancia a braccia aperte, con amore.
Amore per la morte che tutto ammorba.
Un sole spento macchia il giornale. È rosso.
Perdo una vita dopo l’altra. La terra scura se le beve.
Lei, il vampiro di noi tutti. E così ci sostiene,
c’ingrassa, benevola. La sua bocca è rossa.
La conosco. La conosco intimamente —
vecchia faccia d’inverno, vecchia infeconda, vecchia bomba a orologeria.
Gli uomini l’hanno usata biecamente. Lei se li mangerà.
Li mangerà. Li mangerà, li mangerà finalmente.
Il sole è calato. Io muoio. Faccio una morte.
PRIMA VOCE:
Chi è questo furioso bambino azzurro,
fulgido e bizzarro, che pare scagliato da una stella?
Com’è imbronciato!
È volato nella stanza, un grido alle calcagna.
L’azzurro impallidisce. È umano, dopotutto.
Si schiude un loto rosso nella sua coppa di sangue;
mi cuciono con seta, come una stoffa.
Cosa facevano le dita prima di stringerlo?
Che ne faceva del suo amore, il cuore?
Non ho mai visto qualcosa di più chiaro.
Come fiori di lillà le sue palpebre
e lieve come falena il suo respiro.
Non scioglierò la stretta.
Non c’è astuzia in lui, non c’è stortura. Che resti tale.
SECONDA VOCE:
Nella finestra in alto c’è la luna. È finita.
L’inverno mi riempie a tal punto l’anima! E quella luce di gesso
che sparge le sue scaglie sulle finestre, le finestre di uffici vuoti,
di aule vuote, chiese vuote. Oh, così tanto vuoto!
E questa cessazione. Questa terribile cessazione di tutto.
Questi corpi ammucchiati attorno a me adesso, questi dormienti polari —
Quale livido raggio lunare ne gela i sogni?
Lo sento penetrarmi, freddo, alieno, come uno strumento.
E quella faccia folle e dura all’estremità, quella bocca a O
aperta nella fissità di un dolore perpetuo.
È lei a tirarsi dietro il mare nero sangue
mese dopo mese, con le sue voci di fallimento.
Sono impotente come il mare che tiene al laccio.
Non trovo pace. Non trovo pace e sono inutile. Anch’io creo cadaveri.
Me ne andrò a nord. M’insedierò in una lunga oscurità.
Mi vedo come un’ombra, né uomo né donna,
non donna, lieta di essere come un uomo, non uomo
rude e piatto al punto di non soffrire alcuna mancanza. Io soffro una mancanza.
Sollevo le dita, dieci paletti bianchi.
Ecco, il buio filtra dalle crepe.
Non riesco a contenerlo. Non riesco a contenere la mia vita.
Sarò un’eroina del marginale.
Non verrò accusata dai bottoni staccati,
dalle calze bucate nei talloni, dalle bianche facce mute
delle lettere inevase, intombate nella cassetta.
Non verrò accusata, non verrò accusata.
L’orologio non mi troverà manchevole, e nemmeno queste stelle
che inchiodano un abisso dopo l’altro.
TERZA VOCE:
La vedo nel sonno, la mia rossa, terribile bambina.
Strilla al di là del vetro che ci separa.
Strilla ed è furiosa.
I suoi strilli sono uncini che afferrano e lacerano come gatti.
È con questi uncini che s’arrampica fino alla mia attenzione.
Strilla al buio, o alle stelle
che così distanti da noi ruotano e scintillano.
La sua testolina sembra scolpita nel legno,
un legno rosso, duro, occhi chiusi e bocca spalancata.
E dalla bocca aperta escono strilli acuti
che straziano il mio sonno come frecce,
straziano il sonno e m’entrano nel fianco.
Mia figlia non ha denti. La sua bocca è grande
e non può essere buona se produce suoni tanto oscuri.
PRIMA VOCE:
Cos’è che scaglia fino a noi queste anime innocenti?
Guardate come sono stanche, tutte stremate
nelle loro culle di tela, i nomi stretti ai polsi,
piccoli trofei d’argento per cui hanno fatto tanta strada.
Alcuni hanno capelli folti e neri, altri sono pelati.
La pelle è rosa od olivastra, bruna o rossa;
cominciano a ricordare le loro differenze.
Sembrano fatti d’acqua; non hanno espressione.
Le fattezze dormono, come luce su acqua calma.
Sono suore e monaci veri nelle loro vesti uguali.
Li vedo piovere sul mondo come stelle —
su India, Africa ed America, questi miracoli,
queste immaginette pure. Profumano di latte.
Le piante dei piedi intatte. Sono camminatori dell’aria.
Può il nulla essere così prodigo?
Ecco mio figlio.
L’occhio spalancato è di un comune e scialbo azzurro.
Si gira verso di me come una fulgida piantina cieca.
Uno strillo. È l’uncino che mi aggancia.
E io sono un fiume di latte.
Sono una tiepida collina.
SECONDA VOCE:
Non sono brutta. Sono perfino bella.
Lo specchio restituisce una donna senza deformità.
Le infermiere mi restituiscono gli abiti, e un’identità.
È una cosa che capita, dicono.
Capita a me, come capita ad altre.
Sono una su cinque, o giù di lì. Non un caso disperato.
Sono bella come una statistica. Ecco il mio rossetto.
Mi disegno la vecchia bocca.
La bocca rossa messa da parte con la mia identità.
Un giorno fa, due giorni, tre giorni fa. Era di venerdì.
Non ho nemmeno bisogno di ferie; posso andare al lavoro oggi.
Posso amare mio marito, che capirà.
Che mi amerà attraverso il velo della mia deformità
come se avessi perso un occhio, una gamba, la lingua.
Ed eccomi in piedi, un po’ cieca. Eccomi andare via
su ruote, non sulle gambe, fa lo stesso.
E imparo a parlare con le dita, non con la lingua.
Il corpo è pieno di risorse.
Dal corpo di un’asteria ricrescono le braccia
e i tritoni sono prodighi di zampe. Che io sia
altrettanto prodiga di ciò che mi manca.
TERZA VOCE:
Lei è un’isoletta, addormentata e quieta,
e io sono una nave bianca che fischia: Addio, addio.
Il giorno rifulge. È dolentissimo.
I fiori in questa stanza sono rossi e tropicali.
Hanno vissuto sempre dietro un vetro, accuditi con tenerezza.
Ora hanno davanti un inverno di lenzuola bianche, di bianchi volti.
C’è ben poco da mettere in valigia.
Ci sono i vestiti di una donna grassa che non conosco.
Il mio pettine e la mia spazzola. C’è un vuoto.
Sono così vulnerabile, d’un tratto.
Sono una ferita che esce dall’ospedale.
Una ferita che lasciano andar via.
Mi lascio dietro la salute. Lascio qualcuno
che s’attaccherebbe a me: sciolgo le sue dita come bende: vado.
SECONDA VOCE:
Sono di nuovo me stessa. Nulla in sospeso.
Sono esangue come cera, non ho legami.
Sono piatta e verginale, dunque nulla è accaduto,
nulla che non possa essere cancellato, strappato e gettato via, ricominciato.
Questi neri ramoscelli non pensano di germogliare,
né sognano la pioggia questi fossi secchi, secchi.
La donna che mi viene incontro nelle vetrine — lei è impeccabile.
Tanto impeccabile da risultare trasparente, come uno spirito.
Con che timidezza sovrappone il suo sé impeccabile
all’inferno delle arance africane, dei maiali appesi per le zampe.
Si sottomette alla realtà.
Sono io. Sono io —
Sento l’amaro tra i denti.
L’incalcolabile perfidia del quotidiano.
PRIMA VOCE:
Fino a quando potrò essere un muro e proteggere dal vento?
Fino a quando potrò
raddolcire il sole con l’ombra della mano,
intercettare gli azzurri dardi di una luna fredda?
Le voci della solitudine, le voci del dolore
sciabordano ineluttabilmente alle mie spalle.
Come potrà placarle questa piccola ninnananna?
Fino a quando potrò essere un muro intorno alla mia verde proprietà?
Fino a quando le mie mani
potranno essere una benda per la sua ferita, e le mie parole
allegri uccelli in cielo, consolare, consolare?
È terribile
essere così aperti: è come se il cuore
si mettesse un volto e se ne andasse per il mondo.
TERZA VOCE:
Oggi i college sono ubriachi di primavera.
È un piccolo funerale la mia toga nera:
dimostra che sono seria.
I libri che ho con me mi s’incuneano nel fianco.
Avevo una vecchia ferita, un tempo, ma sta guarendo.
Avevo sognato un’isola, rossa di strilli.
Era un sogno, e non significava niente.
PRIMA VOCE:
L’alba fiorisce nel grande olmo davanti a casa.
Sono tornati i rondoni. Fischiano come razzi di carta.
Sento il suono delle ore
allargarsi e morire nelle siepi. Sento muggire le vacche.
I colori si rinnovano, e fuma al sole
la paglia umida.
Aprono i narcisi facce bianche nell’orto.
Mi sono calmata. Mi sono calmata.
Questi sono i colori chiari e brillanti della cameretta,
gli anatroccoli parlanti, gli agnellini allegri.
Sono di nuovo semplice. Credo ai miracoli.
Non a quei tremendi bambini
che mi feriscono il sonno coi loro occhi bianchi, le mani senza dita.
Non sono miei. Non mi appartengono.
Mediterò sulla normalità.
Mediterò sul mio piccino.
Lui non cammina. Non dice una parola.
È ancora avvolto in fasce bianche.
Ma è perfetto e rosa. Sorride di continuo.
Ho tappezzato la sua stanza di grandi rose,
ho dipinto cuoricini ovunque.
Non voglio che lui sia eccezionale.
È l’eccezione a fare gola al diavolo.
È l’eccezione a salire sul colle doloroso
o sedere nel deserto e ferire il cuore di sua madre.
Voglio che sia uno uguale a tutti,
che mi ami come io amo lui,
e che sposi ciò che vuole e dove vuole.
TERZA VOCE:
Caldo mezzogiorno sui prati. Soffocano
e si sciolgono i ranuncoli, e sfilano,
sfilano gli innamorati.
Sono neri e piatti come ombre.
È così bello non aver legami!
Sono solitaria come l’erba. Cosa mi manca?
Lo troverò mai, questo qualcosa?
I cigni sono spariti. Il fiume
ricorda ancora quant’erano bianchi.
Li cerca con le sue luci.
Trova le loro forme in una nuvola.
Quale uccello grida
con tanto dolore nella voce?
Sono giovane come sempre, dice. Cosa mi manca?
SECONDA VOCE:
Sono a casa al lume di una lampada. Si allungano le sere.
Rammendo una sottoveste di seta: mio marito legge.
Con che bellezza la luce abbraccia tutto ciò.
C’è come un fumo nell’aria primaverile,
un fumo che fa rosa i parchi, le piccole statue,
come se una tenerezza si svegliasse,
una tenerezza inesauribile, qualcosa che guarisce.
Attendo, dolorante. Sto guarendo, credo.
C’è ancora così tanto da fare. Le mie mani
sanno cucire bene il pizzo sulla stoffa. Mio marito
può girare e girare le pagine di un libro.
E così siamo a casa insieme, dopo ore.
A pesarci sulle mani è solo il tempo.
Solo il tempo, che non è sostanziale.
Le strade di colpo possono mutarsi in carta, ma io mi riprendo
dalla lunga caduta, e mi ritrovo a letto,
salva sul materasso, le mani salde, come per una caduta.
Ritrovo me stessa. Non sono un’ombra
sebbene un’ombra s’allunghi dai miei piedi. Sono una moglie.
La città attende, dolorante. Le erbette
fendono la pietra, e sono verdi di vita.
Marzo 1962

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