Una cosa piccola piccola che si fa spazio (di Alessio Alessandrini)

 

(Considerazioni su Dire casa, di Francesca Perlini –  Arcipelago Itaca Edizioni)

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Tre sono gli aggettivi che, terminata la lettura della seconda raccolta di versi di Francesca Perlini Dire casa – Arcipelago Itaca Edizioni -, affiorano automaticamente nella mente del lettore: Dire casa è una silloge erratica, orante e erotica, allo stesso tempo.

Che si tratti di un viaggio e che la dimensione dell’errare sia inevitabile matrice del libro lo si comprende fin dai primissimi versi, non a caso il frammento incipitario di Gonne, la sezione entrante, recita “fatalmente” così:

*
che la brezza ci assista
tramando via acqua dalle gonne appese
in questo viaggio fatale.
(pag. 13);

a sigillare tale aspetto primigenio e a conferma di quanto asserito basta sfogliare qualche altra pagina e ci si imbatte in versi gemelli, come quando – a pag. 31 – si parla di “erranza”:

quale erranza,
inquieta come la verità cercata,
di gonne Sufi aprirà bianco il Dio umano?;

o a pag. 55, dove la sposa, protagonista del duetto in versi di L’amore non si immagina, si abbandona, dichiara:

Per i sentieri erti, la traccia
di questa resistenza pellegrina
dove cammina gigante la calma,
da un filo d’erba a questa compagna ….

Immergersi nella poesia di Francesca Perlini vuol dire innanzi tutto sperimentare l’avventura

della pendolarità, del cammino; il calpestare, il tramestio non solo conduce lungo i celebrati sentieri boschivi, (si veda quanto affermato più avanti), ma verso una sequela imprevista e inaspettata di svolte, curve, pieghe, da assecondare senza tentennamenti e ripensamenti.

Il titolo, perciò, appare emblematico sin dall’avvio, (e fa bene, in tal senso, Danilo Mandolini a rimandare direttamente alla precedente prova poetica della stessa Perlini che si intitolava, per l’appunto, Prima di partire, con ancora presente un verbo mobile di chiaro riferimento), poiché spinge il lettore verso una dimensione di ricerca e investigazione, e lo chiama a battere i molteplici versi-versanti per poter ritrovare il sentimento della “casa” e poterlo, effettivamente e affettivamente, nominarlo: dirlo! (Ndr: Dire casa, appunto).

Che la “residenza” sia costitutiva del verseggiare marchigiano lo si sa ormai da tempo e lo si dà per assodato; anche Francesca Perlini non sfugge alla casistica ma riesce a solcare questi lidi abitudinari con una voce innovatrice e coinvolgente.

Il luogo / non luogo, come direbbe Marc Augé, verso cui ci indirizza la scrittura della poeta di San Costanzo, lo scoprirà presto il lettore, è il bosco; nulla a che vedere con la peccaminosa e buia selva dantesca ma, in una metafora ribaltata, possiamo parlare di centro del connubio e della santificazione umana. Poiché trattasi pur sempre di un pellegrinaggio, questa erranza ha come altare fondante da raggiungere, come cuore pulsante e pacificato da abbracciare e custodire proprio il bosco.

Questo locus amenus è appunto lo sposo dichiarato nella seconda parte della raccolta, il bosco che si apre alla luce e al passo, che accoglie e raccoglie, che offre un riparo e un senso all’attesa. Il bosco come luogo generativo di una nuova esperienza esistenziale, dove il gioco dell’infanzia si perpetua in una maturità rinfrancata dalla compenetrazione e dalla socializzazione, dall’unione salvifica tra mondo umano e mondo vegetale:

Appoggio la guancia nelle tue cavità
stendo le gambe sulla tua chioma
apro il ventre ai tuoi semi
in inondazione e in aridità
nella chiarità e nell’oscuro
che trasmutano la lotta in nascite.
(pag. 68)

Diciamo un lungo, un lunghissimo, cammino che segue la sottile matassa da districare e che è in mano a colei che cuce gonne (pag. 49), ovvero colei che ha in dono la parola che tesse. Cos’altro è una poeta se non una ricamatrice, una sarta della parola che taglia, (taglia la -taglia la- taglia!; pag. 26) e trama, rammenda e intreccia, (testo, dal latino textus con significato originario di tessuto o trama), e ha in mano il pericolosissimo arnese delle vecchie parche: la forbice; e non è poi la vera poesia una lotta continua e aspra contro la morte che avventa?
Il viaggio che ci chiama a compiere Francesca Perlini, di fatto, inizia con l’atto del recidere, ed è lei che invita ognuno di noi – ancora una volta lodevole la annotazione di Mandolini in prefazione ad individuare una coralità e pluralità del verseggiare coniugato non alla prima persona ma a un NOI o a un IO – TU polifonico e convergente in una misticità dell’umano bellissima e sana – a fare altrettanto.

Se Francesca Perlini è colei che cuce gonne ben sa utilizzare le forbici e ben sa che l’atto del tagliare, del recidere è consustanziale a qualsiasi avanzare. In tutta la scrittura di Francesca Perlini emerge, infatti, fortissimo, il sentimento del distacco, della privazione, della lacerazione, quella che fa sgorgare sangue; non si tratta del taglio di una qualsiasi ferita, ma del taglio cesareo della partoriente, rimando a un senso della maternità e dell’attesa che avvolge l’intera raccolta.

Cos’altro è l’atto creativo, d’altronde, se non un atto di gestazione e la stessa figura femminile si incarna nella felicissima e poeticissima icona della “gonna”, a volte fardello pesantissimo che zavorra a terra (stenderemo gonne gonfie a terra, pag. 16), altre volte leggerissimo panneggio con cui prendere il volo (chiuderanno ali bianche, / dentro il battito della gonna nata attenta. / solleveranno in voli …, pag. 27); è nelle pieghe, negli orli che si annidano i giorni in bianco e nero dalla trama lunghissima e variegata dell’esistenza umana, nella duplice tensione del cadere a terra e del librarsi in volo, (territorialità e celestialità, matericità e spiritualità coincidenti e congiunte).

Tutte queste pieghe, tutte queste piaghe, Francesca Perlini non lesina di stenderle e mostrarle al lettore come fossero parte di un sudario; proprio come la sua penna, la gonna si modula al vento in un concerto di chiaroscuri sempre teso e avvolgente, dove accanto alla spina nascosta trova respiro la luce che accarezza e risana, e dove la parola è pronta a stupire e a svelare ogni possibile “risvolto”:

se non fosse stato per la magia
la nostalgia non avrebbe trovato pieghe
in cui cucirsi stracci. non sono forse gonne lucenti
i nostri incontri? imperfetti e giusti
nel loro cadere sui fianchi. (pag. 39)

Se l’immagine totem della prima parte della raccolta di Francesca Perlini è la gonna, essa diviene, nel poemetto “duettato” della successiva, lo strascico. Il passaggio da una sezione all’altra non è doloroso, infatti esso avviene per via osmotica, per così dire, come ben dimostra la lirica di pag. 44 – siamo a conclusione della sezione Gonne – dove fa capolino per la prima volta la parola bosco e dove, suo malgrado, la Perlini anticipa le sue volontà a seguire:

dopo,
vestirò il silenzio della gonna solitaria,
dove cantano ascensioni
bianche betulle –
della loro corteccia sfaldata
il bosco dissolve in chiarità.
camminerò sprofondando tra humus e libri antichi
se cercherò risposte
le pagine sapranno chiudersi schiudendosi passi leggeri, … (pag.44)

Già in questa lirica emerge la dimensione orante che anima in particolar modo il banchetto bacchico de L’amore non si immagina, si abbandona. Ivi vanno in scena i prodromi di un matrimonio e il lento balletto/balbettio dell’avvicinamento tra lo sposo – l’amato bosco – e la sposa – la poetessa stessa.

La misticità della poesia di Francesca Perlini è qui palesata dal modello di riferimento, modello inconscio ma presentissimo, del Cantico dei Cantici. Si tratta di una misticità che non ha nulla di retorico e palesato, ma piuttosto di un carme votato al sommerso e al soffiato, lontano da ululati fonici e forzati di certa pseudo poesia contemporanea al femminile.

Nel panico, (nel senso del tutto poetico da Pan, il dio della poesia), ricercarsi dell’umano con il selvaggio si snoda la trama ricercatissima e raffinatissima di questo canto votato all’amore, non solo per la natura ma per la vita stessa, che qui è inneggiata nel suo completarsi e complicarsi in un fioco di pieghe tutto da scoprire.

Il balzello degli inviti del bosco alla sposa affinché si conceda del tutto indifesa alle sue cure, (Cfr. pag. 52 e pag. 56), si contrappone, in un controcanto di corteggiamenti, ai tentennamenti della donna che prolunga l’attesa – termine che rimanda al grembo della natalità – dovendo sanare, (potremmo dire: recidere, o forse: potare), quelle trame incomplete che non permettono il salto nel vuoto:

Questo vuoto che separa,
da casa a casa,
il passaggio in questa vita.
Da qui, forse, il detto
“un salto nel vuoto” che va detto –
dice solo quando si è nel buco.
“Incorporare il dito altrui
seguire l’indicazione”
fino a che resistere
sarà l’accumulo di tutte le macerie. (pag. 63)

Tutta la seconda parte della raccolta si professa come attesa da rinnegare nello slancio che toglie ogni esitazione, ogni ambiguità, ogni indugio. Un’attesa che porta dietro una serie lunghissima di codardie e blocchi – uno “strascico”, una matassa di nostalgie, reverié e scorie da recidere.

Ancora una volta alla donna che cuce gonne si chiede di compire l’atto del tagliare, ma è la sconfitta, la perdita, ancora una volta, la matrice catalizzatrice del compimento della (ri)nascita, dove tutti gli opposti si incontrano ed elidono nello stesso istante per permettere l’incontro e l’incanto del varco aperto alla sua stessa unicità:

Questa consistenza trasparente,
tra il desiderio e l’irraggiungibile,
necessaria come le fate per l’infanzia,
pesante abbastanza
per salirci in piedi e spiccare il volo
nell’invisibile dell’amore,
quel chiarore che viene ogni giorno
senza sapere cosa succederà.
(pag. 65)

L’attesa è la soglia accanto al bosco, il bosco è l’immergersi nel sacro, il lasciarsi tutto alle spalle e concedersi al rito che consacra che sa compensare il bianco e il nero, la luce e le ombre, il tremito e il gemito, l’inconsistenza e la matericità.

Si tratta più che di una poetica del boschivo, (ndr: Davide Nota nella prefazione a Prima di partire), di una vera e propria poesia arborea, dove l’albero con le sue rifrazioni e ramificazioni diviene l’immagine del corpo che contempla nel suo essere unico la verticalità, l’altezza, del folto, della chioma, alla ferina e sotterranea umiltà delle radici (termine, che non a caso, rimanda alla “casa”; ndr: il popolare detto “Mettere radici”), dove il passaggio dal passato da abbandonare è tutt’una cosa con il volo che si apre al futuro che verrà.

La poesia di Francesca Perlini, d’altronde, si muove spesso in questa binaria temporalità e non di rado nei componimenti si trovano sequenziali verbi coniugati a un passato remotissimo accanto ad altri che si offrono al risarcimento di un futuro tutto da progettare e contemplare.

La misticità è poi tutta in certi infiniti regolativi, (che fungono da imperativi), i quali non solo segnano le tappe del viaggio palingenetico ma servono, anche e non solo implicitamente, a coinvolgere lo stesso lettore affinché lui lo compia ugualmente in nome di una comunione panica quasi francescana:

Auscultare corpi
da testimoni a palpitanti.
Dare mani alle mani,
sistole diastole del fluire in vita
nel cuore del battito.
Ritrovare l’incanto
dove si è sciupata la gentilezza.
Ardere i fuochi, quando la notte coincide
con il buio stanco dei sentimenti.
Guarda, vedi?
… (pag. 61)

Il rito che si compie nella parte conclusiva di Dire casa è un rito battesimale che richiama all’atto del denudarsi, dello spogliarsi per recuperare – in un percorso catartico a ritroso – una verginità e una purezza che trovano massima e concreta espressione nella celebrazione del patto coniugale tra natura e umanità, in un connubio panico che cancella ogni incomunicabilità:

Hai la mia mano destra
in te custodisco la sinistra
unisci il mio corpo al tuo pensiero
congiungi la mia fine al tuo inizio,
Siamo Uno fatto due. (pag. 68)

Nella alleanza finale si pacifica quanto è andato strappato, graffiato nel lungo viaggio e l’atto di abbandonarsi rimanda a una sutura tra quanto è perduto e quanto materiato, in un’unicità che sancisce la santificazione della cicatrice, il ritorno alla Casa:

Arrivati sul punto del compimento
nessuno può separare il principio,
questa intenzione assunta a corpo fragile,
che torna a Casa abbandonando l’abito
tenuto assieme nella lotta
lasciato in fiducia,
questa umanità che acconsente. (pag. 67)

Un’umanità risanata è quanto attende alla conclusione del percorso poetico di Francesca Perlini. Non resta dunque e, in conclusione, che sviluppare il terzo aspetto che abbiamo associato alla linea di Francesca Perlini ovvero l’eroticità, qui intesa assolutamente non come libido bensì come corporeità, amore del corpo.

Il termine corpo è un’altra presenza costitutiva del comporre di Francesca Perlini, è il corpo sofferto e sofferente, bramato e che brama, generato e generante, il corpo nella sua molteplice unicità: le mani, le gambe, gli occhi, le bocche, che invadono i versi della sua poesia.

Corpi in festa, corpi che cantano e si baciano (Dal corteo occhi cantano il loro amore / che le bocche si baciano già; pag. 49), ma anche corpi gravidi, solcati da tagli, screpolature, crepe, pieghe e piaghe; corpo orante e corpo mistico, come dimostra la vocazione plurale della poesia di Francesca Perlini, poesia partecipata, coniugata al Noi o all’Io e al Te (cfr: quanto asserisce a tal proposito Danilo Mandolini in prefazione), mai angustiata in una prima persona narcisistica e egoica:


La punta del mio piede
precipita, dimentico la provenienza
questo perdere la strada
per trovare il sentiero
dove il fruscio ricorda
che siamo nati
per ritrovarci nel corpo.
L’amore non s’immagina
si abbandona.
(pag. 51)

E non da ultimo, il corpo è il corpo della poesia, sì perché come tutte le buone raccolte poetiche anche Dire casa non è esente da una dimensione mèta-poetica e mito-poietica; più o meno implicitamente il verseggiare di Francesca Perlini rimanda a se stesso, si ausculta e parla del poetare, come quando – in più di un’occasione – si fa riferimento diretto all’atto della scrittura e del cantare:

*
schiude segreti di gonne il dito
che segue le trame della pagina inferiore
ancora bianca di parole.
(pag. 30)

e ancora, in modo ancora più evidente, a pag. 59:

Il corpo della parola
è il mio corpo, coincide suoni.
Ti riconosco nella pronuncia
sul punto dove lingua batte
palato e voce (aria), sporgere labbra
dal precipizio del mio viso
TU
… (pag. 59)

È di un amore che ci parla in fin dei conti, Francesca Perlini, amore per un’umanità, (il termine umano ritorna ossessivamente in molte composizioni, soprattutto nella prima parte), da sciogliere e consacrare, amore per una natura a cui abbandonarsi per rigenerarci e, soprattutto, amore per una parola, quella pura e senza illusioni, quella assoluta che muove dalle piccole cose per inondare nella luce lo spazio che la circonda e rinnovarla come in un big-bang infinito dove ogni spazio è uno spazio domestico, dove ogni luogo è quello perfetto, quello che possiamo nominare “casa”, perché la poesia altro non è che una cosa piccola piccola che si fa spazio / al centro della scena, (pag. 64).

E nella scena si apre, nel suo folto fogliame, il bosco con le gemme su rami a farsi fiore, l’albero su cui poter riposare senza per questo implicare la morte del canto, la sua definitiva assoluzione:

Scegli l’albero,
non si distrae l’usignolo. (pag. 52)

[Alessio Alessandrini, 28 Dicembre 2015]

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