La prima inquadratura è da manuale: un uomo a tre dimensioni, con uno specchio che ne riflette il volto e un autoritratto che prende forma grazie al pennello d’artista. Tre dimensioni che investono una riflessione sull’immagine, sull’essenza e l’ambiguità dei volti e della natura umana, con un riferimento all’importanza del ritratto che ritorna alla fine del film. Il tutto nello stile del grande cinema tradizionale, sublime in alcuni momenti e melenso o troppo accattivante in altri, di Steven Spielberg.
Dopo “Salvate il soldato Ryan” e “Lincoln”, “Il ponte delle spie” racconta un altro periodo centrale della storia statunitense, tra il 1957 e il 1961, con l’arresto di una presunta spia russa (il paradossale Mark Rylance), il processo e la cattura successiva di un militare americano da parte dei sovietici. Al centro della scena è l’avvocato James B. Donovan, interpretato con la consueta adesione e sensibilità da Tom Hanks. L’abilità registica di Spielberg e la scrittura brillante di Matt Charman e dei fratelli Coen (sì, proprio loro, Ethan e Joel) raccontano in una forma narrativa coinvolgente temi che investono l’oggi: il rispetto della democrazia e delle garanzie processuali, la Costituzione americana e i suoi valori, il clima psicologico di terrore quotidiano provocato dalla Guerra fredda, la considerazione delle ragioni degli altri (anche se “nemici”) e di quanto la cosiddetta verità sia complessa, come l’intelligenza sottile e la passione civica dell’avvocato Donovan dimostrano.
L’affresco è curato sul piano visivo, con la fotografia di Janusz Kaminski, e solo in qualche momento la sceneggiatura avrebbe potuto essere ancora più incisiva, soprattutto in relazione ai personaggi minori e ad alcuni spunti non valorizzati. La parte berlinese, con l’arresto di un giovane studente statunitense da parte dei gendarmi della DDR, si arricchisce di un tocco a tratti quasi surreale e la tenacia di Donovan/Hanks, in questo intreccio di scambi tra nemici, è al servizio di un ritmo incalzante. Di certo, non mancano le scelte convenzionali sul piano dell’immagine e della scrittura, o nell’uso delle musiche di Thomas Newman, e Spielberg si ferma prima di porre allo spettatore domande ancora più radicali e profonde. L’azione e la riflessione si armonizzano e ci si diverte, purché non ci si faccia irritare dalla tendenza alla Spielberg ad assecondare lo spettatore.
Marco Olivieri
Dal settimanale Centonove Press del 23 dicembre 2015, rubrica Visioni.
mi è venuta una gran voglia di vederlo