Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 4) The King of Luxembourg

The King of Luxembourg

simon turner

Sarebbe troppo lungo scendere nel dettaglio dell’avventurosa e bizzarra carriera artistica di Simon Fisher Turner. Enfant prodige, figlio di capitano di (giallo?) sottomarino britannico e di un’archeologa, divenne presto idolo delle teenager giapponesi grazie a un bel faccino da star, una precoce carriera da attore e una versatile, camaleontica produzione musicale. In Giappone hanno notoriamente un’immagine distorta della cultura occidentale: in Inghilterra a Simon preferivano staccare la presa della corrente durante i concerti. Derek Jarman lo scelse come autore di molte delle colonne sonore dei suoi film, Matt Johnson lo volle per un paio d’anni nei The The e lui di suo si dette da fare per diversificare il suo talento in altri progetti (ad esempio le Deux Filles, formate insieme a quell’altro genio mattacchione di Colin Lloyd-Tucker). Ma è dei due anni presso la él records di Mike Alway che ci interessa qui parlare, in cui Fisher-Turner assunse le spoglie del Re del Lussemburgo e produsse due dischi memorabili. In particolare il primo, che potrebbe concorrere in qualunque nippo-classifica come il più grande disco pop di tutti i tempi.

Iniziamo dando uno sguardo alla tracklist

1 A Picture of Dorian Gray
2 Valleri
3 The Rubens Room
4 Mad
5 Poptones
6 Something for Sophia Loren
7 Baby
8 The Wedding of Ramona Blair
9 Happy Together (Prelude)
10 Smash Hit Wonder
11 Happy Together
12 Liar Liar

…che sarebbe un po’ a dire

1) Television personalities
2) Monkees
3 – 7- 10) Philippe Auclair aka Louis Philippe
4) Templeman/Scoppettone aka Harper’s Bizarre
5) P.I.L.
6) Henri Mancini
8) Dave Hynes—> The Mirage
9 – 11) Turtles
12) Castaways

Niente originals, diciamo, tranne forse i tre pezzi che l’allora compagno di scuderia e sublime compositore Philip Auclair (Louis Philippe) immagino abbia scritto per lui in occasione del disco.

Eppure questo disco non è soltanto una collezione di cover: è un’idea estetica, ed è tutta giocata sull’insostanza. Prendere alcuni dei più famosi (in altri casi solo tra i più bei) pezzi pop della storia e immergerli in un tour de force arrangiativo: chitarre acustiche ed elettriche, fiati, archi, tastiere, tamburelli, marimbe, percussioni assortite… tranne il basso (esplicitamente bandito per ordine del re).

Prendere la track 2, Valleri, che inizia con lo spettacolo pirotecnico di due chitarre classiche; sotto, una batteria frenetica si lascia insolentire da un suono gigione di corno inglese che, infine, si prostra per lasciare la chitarra acustica delirare baroccamente per tre minuti: un maelström di corde snob votate a essere abbattute dalla rivoluzione proletaria.

Prendete il terzo pezzo, The Rubens Room – che è pura aristocrazia sonora (qualunque cosa ciò significhi): dovessi essere decapitato all’alba supplicherei questa colonna sonora. Chitarra acustica leggera riverberata, e un sassofono perso in suggestioni descrittiviste – intervallato solo da uno o due violoncelli pigri.

O Mad (degli Harper’s bizarre): tutta un caleidoscopio di violini, hammond leziosi, oboe e soprattutto il consueto schitarrare al nylon.

Trasfigurazione alchemica: Poptones dei Public Image Limited – diventa odore di campagna inglese rugiadosa, e armonia che tanto fine non s’immaginerebbe. È un vertice di vortici. Indicibile bellezza.

Ma è davvero inutile che insista pezzo per pezzo (dovrei farlo per tutti e finirei vittima d’un aggettivismo scaruffista): non esiste un disco che potrebbe fornire all’amante pop un benessere e un’olimpica retrospettiva dose di creazione/mimesi (mimesi della creazione e creazione della mimesi, s’intenda) maggiori di quelli che secerne “Royal bastard” ogni puntuale volta che si mette su.

Se esistesse davvero il noumeno del pop, questa sarebbe la sua icona sul desktop.
Cercatelo, amatelo.

Alessandro Calzavara


In copertina: Royal Bastard (front cover, The King of Luxembourg, 1988).

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