THE VISIT: Il Cinema del venerdì – di Francesco Torre

THE VISIT

Regia di M. Night Shyamalan. Con Olivia DeJonge (Becca), Ed Oxenbould (Tyler), Deanna Dunagan (Nana), Petr McRobbie (Pop Pop), Kathryn Hahn (Mamma).
Usa 2015, 94’.
Distribuzione: Universal Pictures.


the-visit-locandina-italiana

Horror, traumi infantili e videotape. Becca Jamison ha solo 15 anni ma idee molto chiare sul proprio futuro: diventerà una documentarista. Così, prima di salire sul treno con il fratello minore Tyler per andare a incontrare i nonni materni, mai visti finora, decide che trasformerà quell’esperienza nel suo primo film.

Tema: ripercorrere i luoghi dell’infanzia della madre, scoprire il motivo per cui ha interrotto totalmente i rapporti con i genitori e, se possibile, dare ad entrambi la possibilità di riconciliarsi con la propria coscienza. Svolgimento: riprese dal vero, cronaca diretta di ogni singola fase del viaggio e soprattutto interviste in camera fissa, con rari stacchi di montaggio e nessuna colonna sonora a disturbare i flussi di coscienza davanti alla macchina da presa.

A Masonville, Pennsylvania, però, il film di Becca prende una piega del tutto imprevista. Se l’assenza di campo del cellulare di Tyler e il divieto del nonno di visitare la cantina per via dell’umidità sembrano sin da subito segnali sinistri, la visione della nonna che vomita in piena notte nel salotto, l’improvvisa e destabilizzante apparizione dell’anziana tra le fondamenta del caseggiato dove i ragazzi giocano a nascondino, la scoperta di uno scatologico segreto nella baracca adiacente segnano l’ingresso ufficiale nel territorio del perturbante.

Il buio, le manifestazioni di demenza, i gesti meccanici, le azioni ripetute e, infine, sua maestà il doppio rischiano così di diventare ingredienti classici e tutto sommato prevedibili di una progressione drammaturgica scandita sì con grande abilità tecnica, ma sostenuta da soluzioni a dir poco inverosimili: la perfezione delle riprese amatoriali anche quando la fotocamera è in mano ai personaggi anziani o quando chi preme il tasto REC sta vivendo una situazione di massima tensione fisica e psicologica; l’estrema funzionalità narrativa dell’escalation di crimini e misfatti; l’assoluta mancanza di sorveglianza (sia da parte dei concittadini, sia soprattutto da parte degli inesistenti apparati di sicurezza) su omicidi di cui peraltro non riusciamo a concepire tempi e modalità.

Poste le basi di una narrazione di genere, però, le direzioni dello script cominciano a moltiplicarsi, incrociarsi, stratificarsi. Di fronte al rischio concreto di essere coinvolti in una storia macabra dai contorni indefiniti, per esempio, i due ragazzi reagiscono diversamente (Becca prova a giustificare razionalmente gli eventi, Tyler al contrario istintivamente cova un senso di repulsione) ma entrambi si ritrovano sul terreno comune delle radici segrete delle proprie paure più inconsce. Dimenticandosi così per un attimo della situazione contingente (o forse proprio in virtù di essa), trovano il tempo e il modo per intervistarsi reciprocamente, ponendo al centro del discorso il trauma mai superato dell’abbandono della figura paterna. La sequenza non a caso è posta esattamente al centro del secondo atto. Da quel momento, infatti, non solo acquisteranno nuovo senso tutte le ambizioni creative e le piccole e grandi fobie che caratterizzano la loro personalità (Becca: cinema e paura degli specchi; Tyler: rap e ossessione dei germi), ma all’interno di uno schema perfettamente simmetrico (l’abbandono del loro padre si sovrappone al dolore vissuto dalla madre per la rottura dei rapporti con i propri genitori) l’elemento perturbante si incontrerà e incrocerà indissolubilmente con un percorso di formazione.

the visit forno

Su un altro piano, poi, la sequenza in cui la nonna invita Becca ad entrare nel forno per aiutarla a pulirlo sembra fin troppo eloquente per non valutare come l’intero impianto drammaturgico possa essere letto come una densa e pregnante riflessione sui meccanismi della (auto)rappresentazione. Il parallelismo con “Hänsel e Gretel”, peraltro così forzato e smaccato, induce a pensare che la mise en abîme, vissuta inizialmente come un puro pretesto estetico-drammaturgico, un espediente da found footage, sia l’architrave occulta di un disegno autoriale che racchiude e contiene al suo interno, come in una matrioska, tutti i livelli del racconto. Pensiamo alle numerose esternazioni di poetica di Becca alle prese con la creazione del suo primo film. Pensiamo, ancora, all’apparizione di due personaggi completamente esterni alla narrazione (il controllore sul treno e il medico che fa capolino nella villa dei nonni), entrambi ipnotizzati a tal punto dalla vista della videocamera da rivelare adolescenziali ambizioni attoriali e procedere con l’immediata declamazione di versi in rima. Pensiamo, ancora, al rap finale di Tyler sui titoli di coda. Ma soprattutto pensiamo a quella che forse è visivamente la sequenza chiave dell’intero film, la conclusione della vicenda criminale in cui a un certo punto, senza preavviso, le immagini non vengono più filtrate dalla fotocamera di Becca, la musica extradiegetica esplode con un senso di liberazione e un punto di vista esterno, onnisciente, si presenta allo spettatore rivelando la natura finzionale della messa in scena e la presenza demiurgica di un autore.

Già, l’autore. Dall’ossessione per gli scantinati alla presenza dell’acqua come elemento portatore di morte, dal gusto per i sorprendenti colpi di scena nel finale alla rappresentazione di adolescenti fragili privati di una figura genitoriale, che ricostruiscono la realtà (per comprenderla e comprendersi) mediante una forma d’arte, tutto l’universo di “The Visit” riconduce in modo incredibilmente lucido alla biografia e alla filmografia di M. Night Shyamalan (già ad 8 anni autore di video in super 8, regista de “Il sesto senso”, “Unbreakable”, “Signs” e “The village”), costruendo insieme con la serie tv “Wayward Pines” un fortunato dittico dichiaratamente lynchiano, in cui la riflessione metalinguistica ha finalmente il controllo sul “dominio dei sentimenti”, le multiformi istanze di espressione del compulsivo e disaggregato io autoriale trovano compiutezza nei continui cortocircuiti all’interno e all’esterno del genere e il gusto giocoso per la messa in scena si unisce armoniosamente con la teorizzazione esplicita dell’arte come unico elemento codificatore e rivelatore dell’esistente.

Francesco Torre

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