Scambio di sguardi – “Youth – La giovinezza” di Paolo Sorrentino

In concomitanza con la triplice vittoria di YOUTH all’Efa (Miglior film, miglior regia, miglior attore), Carteggi Letterari ripropone gli interventi di Marco Olivieri e Francesco Torre sul film di Sorrentino. Buona lettura.


SCAMBIO DI SGUARDI

YOUTH – LA GIOVINEZZA di Paolo Sorrentino


YOUTH – LA GIOVINEZZA

Regia di Paolo Sorrentino. Con Michael Caine (Fred Ballinger), Harvey Keitel (Mick Boyle), Rachel Weisz (Lena Ballinger), Paul Dano (Jimmy Tree), Jane Fonda (Brenda Morel).

Italia, Francia, Svizzera, GB 2015, 118’.
Distribuzione: Medusa.

maradona yputhPalcoscenico girevole e inquadratura fissa. Primo piano su una cantante con un bel fiocco colorato in testa. Sfondo scuro, fuori fuoco, da cui emergono gambe nude di donne in movimento, corpi che ballano. “You got the love”, ricorda continuamente la canzone. E come nel più classico tra i dove eravamo rimasti?, ecco riaffiorare dalla memoria le atmosfere di “This must be the place” e “La grande Bellezza”. Ricucita così in pochi attimi l’ellissi che separa la visione di un film dall’altro, siamo pronti ad entrare nuovamente nel mood sorrentiniano.
Tableaux vivants, aforismi, rallenty, cinefilia, cinismo, massimalismo postmoderno, autoreferenzialità, uso emotivo delle musiche, gusto per la provocazione sociale e culturale, narcisismo, episodicità strutturale, simbolismo. Tutto ciò che i fan del regista napoletano si aspettavano è qui, in bella mostra, enunciazione di un eterno ritorno a una gabbia autoriale ormai del tutto priva di autoironia e tendente anzi all’autocelebrazione.
Un monaco tibetano, una giovane musulmana riccamente imbellettata, un ex-calciatore argentino obeso, uno scalatore svizzero, un attore di Hollywood e addirittura Miss Universo: la stazione termale che fa da sfondo a “Youth” è un crogiolo di culture. Qui da 20 anni trascorre le proprie vacanze Fred Ballinger, compositore e direttore d’orchestra inglese in pensione. Qui soggiorna anche “l’amico americano” e consuocero, il regista Mick Boyle, impegnato con la sua squadra di sceneggiatori a terminare lo script del suo film-testamento dal titolo profetico “L’ultimo giorno della vita”. E qui ogni sera gli ospiti vengono allietati da esibizioni canore, danze e giocolerie, fiacco tentativo di ravvivare un ambiente-mondo sempre uguale a se stesso, nostalgico, che già odora di naftalina. Eppure, le maschere indossate dai protagonisti per celare le proprie sconfitte personali sono presto destinate a crollare. Le vibranti recriminazioni della figlia Lena e le lusinghe di Buckingham Palace per un’ultima direzione d’orchestra portano Fred Ballinger a ricomporre il puzzle della propria esistenza, soprattutto in relazione al rapporto con la moglie, e lo obbligano ad una scelta coraggiosa. Uguale sorte toccherà a Mick Boyle, reduce da uno spietato duello verbale con l’attrice-feticcio Brenda Morel che lo lascerà privo di autostima e senza più un film da girare.
E’ un mondo sacrificato ad una perenne e vana lotta per la sopravvivenza quello che viene messo in scena sullo sfondo delle Alpi svizzere e negli ambienti della stazione termale. Sorrentino lo inquadra come sempre senza compromessi, anzi con eccessi espressionistici: due anziani in carrozzina che litigano aspramente per avere la precedenza nei corridoi dell’albergo; una coppia in crisi sessuale incapace di comunicare il proprio disagio; una prostituta adolescente e impaurita che non può, o non sa, ribellarsi al proprio destino. E’ la morte al lavoro, che il regista descrive con sguardo da entomologo, freddezza scientifica, meccanicità. Corpi nudi, corpi vecchi, corpi immobili, quasi cadaverici se ripresi sotto il pelo dell’acqua, creano composizioni statuarie e decadenti, cui per contrasto i rigogliosi e sempiterni paesaggi montani, la flora e la fauna che così sorprendentemente riaffiorano a tratti e inaspettatamente a esibire le proprie “grandi bellezze”, replicano rivendicando la propria supremazia sulle macerie di una civiltà ormai affacciata sull’abisso. Tra i due estremi, il tempo, concetto filosofico complesso e stratificato che Sorrentino interpreta in maniera compromissoria (e un po’ furbesca), strizzando l’occhio alla lezione di Gilles Deleuze ma senza rinunciare al linguaggio sovrabbondante e retorico che ormai costituisce la cifra del suo stile registico. Un procedimento un po’ ambiguo che finisce per depotenziare la forza di alcune interessanti invenzioni filmiche. rossanaPensiamo ad esempio alle volte in cui Michael Caine strofina la carta della caramella Rossana. Subito il suono evoca immagini, sensazioni, situazioni, ed il richiamo alla madeleine proustiana, e dunque a Bergson, sembra naturale. In realtà, però, la pratica del ricordo qui in “Youth” è del tutto vietata, almeno dal punto di vista figurativo. Il passato dei personaggi, infatti, viene rievocato sempre e solo a parole (tante, forse troppe), senza mai ricorrere all’uso del flashback. Nessuna madeleine, quindi, ma solo un raffinato artificio di montaggio, se non – nella peggiore delle ipotesi – il pegno pagato alla Perugina per una ricca sponsorizzazione.
Provare a spiegare la lingua di Sorrentino alla luce degli strumenti critici convenzionali, però, è diventata impresa sempre più ardua e ormai quasi del tutto azzardata. La sintassi del regista napoletano, orientata ad identificarsi con un unico segno d’interpunzione, il punto esclamativo, sembra infatti ricollegarsi più ai metodi rappresentativi della pop-art (soluzioni visive provocatorie, esibizione di simboli della cultura capitalista con effetti ora metonimici ora paradossali) che al dibattito semiologico novecentesco legato all’ontologia cinematografica. Per questo non può e non deve sorprendere che tra gli emblemi del film vi sia anche Diego Armando Maradona, o meglio un suo innominato sosia con un tatuaggio di Marx sulla schiena e un crocifisso sul collo, ripreso a colpire con divina grazia una pallina da tennis nonostante l’ingombrante stazza. Un’immagine potente, destinata a rimanere nella memoria, che tiene insieme diverse istanze presenti nel film come l’irreversibilità dello scorrere del tempo, l’insensatezza di un approccio estetico di stampo ideologico e, soprattutto, la doppiezza della natura umana, che cela sempre grandi bellezze dietro orrende realtà e viceversa.
E’ proprio questo libero e caotico procedere per frammenti, questa distanza dal modello narrativo prestabilito ad aver generato in buona parte del pubblico – prima e dopo la conquista dell’Oscar – effetti di confusione e straniamento, creando un clima, passateci il termine, divisivo nei confronti del cinema di Sorrentino. Un cinema che, nei suoi più esaltanti traguardi (si pensi a “Il Divo” e “La grande Bellezza”), si presenta come una sterminata galassia formata da tante piccole stelle (le scene, le situazioni, i personaggi di contorno, le trovate visive), ognuna risplendente di luce propria ma tutte attratte da un unico centro di gravità: un personaggio misterioso e astratto, presenza demiurgica ed onnicomprensiva, perno fondativo dei destini collettivi, ormai universalmente identificato in Toni Servillo. Nelle produzioni internazionali di Sorrentino, però, ecco che questo centro di gravità scompare, e con esso Servillo. Era successo già in “This must be the Place”, e si verifica anche in “Youth”. Il chaos cede il posto al kosmos, l’anarchia visiva cerca ordine all’interno di una gabbia drammaturgica fortemente coercitiva, con i tre atti aristotelici e l’arco di trasformazione dei personaggi ben in evidenza. Ma la sensazione che ne viene fuori è quella di un innaturale sforzo normativo. In “Youth”, per esempio, ogni singolo interprete conferisce al proprio personaggio un fascino ipnotico, lavorando sul corpo e sull’espressione in modo esemplare e garantendo ad ogni singola scena un potenziale emotivo non comune. Eppure gli stessi personaggi faticano non poco a trovare uno spazio di autonomia al di fuori dello schema funzionale in cui la sceneggiatura li ha costretti, con esiti a volte anche poco plausibili. E’ del tutto improbabile, per esempio, la love story tra Lena e l’alpinista svizzero. Meccaniche e troppo schematiche nella loro contrapposizione, poi, si rivelano anche le direttrici che lo script affida ai due protagonisti: se Mick Boyle cede agli istinti di morte, Fred Ballinger accetta lo stato di una cosiddetta “nuova giovinezza”, risolve con un colpo di coda ogni conflitto interiore e si riscatta umanamente come in un qualsiasi apologo morale.
Le cose migliori del film, allora, vanno ricercate altrove, negli spazi di invenzione e riflessione che Sorrentino riesce a preservare al di fuori del contesto drammaturgico e che si riversano con forza come acqua limpida da una sorgente di montagna. Ed è qui l’autentico spazio vitale del film, il momento in cui riconosciamo in tutta la sua programmatica potenza eversiva il cinema di Sorrentino: i richiami mistici a Novalis, la straordinaria sequenza in cui Mick lascia emergere dal proprio inconscio, materializzandole su una collina, tutte le donne che hanno contribuito a formare il proprio immaginario cinematografico, l’assurda (ma non così tanto) apparizione di Adolf Hitler alla stazione dei tavoli, nell’ora della colazione.
Quest’ultimo frammento visivo, soprattutto, sembra avere un’importanza capitale sia nell’economia del film che in prospettiva autoriale. Riguarda il personaggio di Jimmy Tree, la star di Hollywood interpretata da Paul Dano che, come Ballinger con le “Canzoni semplici”, ha ceduto una volta alla leggerezza interpretando il ruolo di un robot in un film commerciale e ora è costretto a vivere un eterno contrappasso (echi di “Birdman”?), vittima della sua stessa popolarità. Il suo spazio d’azione risulta così laterale rispetto a quello dei protagonisti che non sarebbe sbagliato ammettere che drammaturgicamente – in chiave cioè di funzionalità narrativa – la sua sia una presenza pressoché inutile. Quando però lo vediamo alle prese con una trasformazione fisica, e ci appare d’un tratto di spalle su un vialetto, con il passo strascicato, in abiti militari, e riconosciamo nel suo volto il baffetto e la rigidità meccanica di Adolf Hitler, capiamo subito di non trovarci alle prese con l’ennesima provocazione visiva. In un “a due” con il regista interpretato da Harvey Keitel, Jimmy Tree si farà infatti portatore di una grande rivelazione: l’inconciliabilità in termini di rappresentazione, in termini cioè estetici, delle due anime che invece convivono perfettamente nel corpo del dittatore tedesco: l’orrore e il desiderio. Come si può capire, la riflessione è di una complessità enorme, sia perché chiama in causa due concetti filosofici di non facile definizione, sia soprattutto perché implicitamente impone all’artista, a qualsiasi artista, di effettuare una scelta di responsabilità nei confronti di se stesso e del pubblico. Ecco perché stabilire, come fa Jimmy Tree, di voler prediligere il desiderio all’orrore rischia di rivelarsi un atto di poetica capace di illuminare di luce nuova, e diversa, l’intera ragnatela semantica di “Youth” e, per esteso, tutta la filmografia del regista napoletano. Ecco perché un approdo così intimo e sincero, se inteso come il punto di arrivo di un percorso di autocoscienza autoriale, potrebbe rendere questo, al di là di ogni vizio formale, il film più eloquente e personale di Paolo Sorrentino.

La citazione: «Voglio raccontare il desiderio, perché è quello che ci tiene sempre vivi».

Francesco Torre


Il mondo di Sorrentino

Youth-La-giovinezza-Nuovo-Cinema-Lebowski-5Visionario, nevrotico, travolgente e privo di misure. Prendere o lasciare. Il cinema di Paolo Sorrentino, e “Youth – La giovinezza” (appena presentato alla 68esima edizione del Festival di Cannes) ne conferma pregi e difetti, non lascia indifferenti e si muove pericolosamente, ma a tratti anche in modo sublime e intenso, tra la superficie e la profondità, la furbizia e l’incanto artistico, la verbosità in fase di scrittura e meravigliose intuizioni soprattutto di regia.
L’autore di “L’uomo in più”, “Le conseguenze dell’amore”, “L’amico di famiglia”, “Il Divo”, “This Must Be The Place” e “La grande bellezza” (Oscar 2014 come miglior film staniero”) è dotato di un linguaggio cinematografico potente e ammaliante, in stretta correlazione con l’inconscio e i turbamenti del vivere. Anche in “Youth”, in una dimensione produttiva europea e con la fotografia intensa di Luca Bigazzi, i movimenti della macchina da presa continui e spiazzanti sono al servizio di frammenti visivi che colgono pezzi di realtà inattesi, esplorando la struggente banalità dell’esistenza e talvolta rimanendo impigliati in questa banalità.
Il cast – dall’immenso Michael Caine (Fred Ballinger) a Harvey Keitel (Mick Boyle), Rachel Weisz (Lena Ballinger), Paul Dano (Jimmy Tree) e Jane Fonda (Brenda Morel) youth_sorrentino_cast– si adegua al mondo creativo di Sorrentino. Un mondo dove tutto si mescola e si confonde: il kitsch e la vera bellezza del cinema, il rischio della maniera e i momenti artistici di notevole forza espressiva. Il risultato è un bel film, tra alti e bassi, una sensazione di incompiutezza in fase di sceneggiatura (specie nel confronto tra i personaggi e in alcune soluzioni narrative), alcune cadute e lampi di autentica forza suggestiva, in una dimensione onirica e personale.
Il film non ha mancato di suscitare reazioni antitetiche. Tra i più critici, Goffredo Fofi (http://www.internazionale.it/opinione/goffredo-fofi/2015/05/27/youth-sorrentino-recensione): “Farcito di massime nel genere Baci Perugina (eh sì, la vita è fatta a scale), Youth – La giovinezza è uno dei film più strambi ma anche più lagnosi visti da tempo. (…) Due i suoi modelli, tutti due altissimi, troppo alti per lui, La montagna incantata e , e certamente non i film sulla vecchiaia di Ingmar Bergman (Il posto delle fragole) o di Akira Kurosawa o perfino (sarebbe stato divertente) di Howard Hawks. Uno solo il modello italiano “giovane” e post-tutto: l’immenso Baricco, che però Sorrentino batte ai punti. La vecchiaia è un pretesto occasionale (è riuscito a narrarla con straniante efficacia Matteo Garrone nell’episodio delle due sorelle del Racconto dei racconti) ed è dominata dal conformismo biologico e mentale nel 999 per mille dei casi. I vecchi di Sorrentino sono marionette di ricchi che si piangono addosso, noiosi come la morte, e che sparano sentenze a raffica, l’una più consunta dell’altra”.
Tuttavia, chi scrive si sente più vicino all’analisi di Christian Raimo (http://www.minimaetmoralia.it/wp/sorrentone/): “Tutti i film di Paolo Sorrentino sono metafilmici, citazionisti, omaggi talmente manifesti a un immaginario cinematografico, musicale, pittorico, da essere pieni di sosia e di cloni; e anche questo non fa eccezione. Anzi potremmo dire che comincia a citare se stesso. Tutti i film di Sorrentino sono delle rimodulazioni di un’idea di cinema in cui l’immagine sullo schermo è sempre il tentativo di ritrovare un’immagine primaria – come se tutti i personaggi andassero in ricerca della loro personale Rosebud (del resto i protagonisti per certi versi non assomigliano tutti a Charles Kane di Quarto potere?) – e anche questo non fa eccezione. (…) a momenti Youth come tutti i film di Sorrentino ci sembra volgare, cafonal o pubblicitario, in momenti – più rari – ci sembra potente. (…) Fred dice a un certo punto: «Gli intellettuali non hanno gusto, e io ho fatto tutto quello che si poteva per non diventare un intellettuale»; e questo sembra essere il manifesto criptato di Sorrentino. Che nella non ricerca di gusto, nel calcare la mano su ogni dettaglio, nel ritenere che ogni scena debba essere una scena madre, nell’allungare l’inquadratura, nel prolungare la colonna sonora per riempire ogni possibile spazio, nel mettere un punto alla fine di ogni frase pronunciata, eccetera… delinea un suo stile trasparente. Cosa sembra che ci voglia raccontare? La tragedia inguaribile dello scorrere del tempo”.
In questo ambito, quando la star di Hollywood interpretata da Paul Dano afferma di voler raccontare il desiderio, “perché è quello che ci tiene sempre vivi”, si entra in una dimensione maggiore di autenticità artistica, non sempre però preparata al meglio sul piano narrativo e nelle sfumature dei personaggi. Una dimensione, quella del desiderio, in opposizione al racconto dell’orrore, che meritava un approfondimento.
Nel complesso, il regista fa cogliere agli spettatori frammenti di un mondo contraddittorio ma denso di fascino, tra Maradona, il pop, Miss Universo e il ribaltamento di presunte verità, eros e thanatos, la sapienza del corpo e il rapporto dialettico tra immagine e sonorità (da David Lang a Mark Kozelek e a molta altra musica, senza dimenticare un concerto finale che impone allo spettatore di rimanere per una volta seduto durante i titoli di coda). Su tutto, l’intensità esistenziale racchiusa nel volto dolorosamente non allineato di Michael Caine.
Ẻ vero, sono tanti i modelli cinematografici e letterari di “Youth”, così come risultano molteplici gli spunti e le suggestioni, e Sorrentino si mantiene lontano dalle vette artistiche e filosofiche di Federico Fellini, più volte citato. Tuttavia, qualcosa rimane, tra le pieghe di una storia universale, e lavora nel profondo, in mezzo a qualche trovata discutibile e a folgoranti intuizioni. L’autenticità della sofferenza è incarnata dal volto di una donna non più attraversato da alcuna memoria.

Marco Olivieri

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