LE PAROLE DELLA FINE
Vincent van Gogh, di Claude Aveline
(traduzione di Giovanna Zulian)
“Né il sole, né la morte si possono guardare fissamente”, disse La Rochefoucauld. Tuttavia van Gogh l’ha fatto con entrambi. Una frenetica passione di servire e d’amare, che era iniziata dal Dio del Vangelo e dalle creature più miserabili nelle miniere del Brabante natale, e poi si era rivolta al cielo e ai suoi abbagliamenti. Dilaniato da amori infelici, incapace di andare d’accordo con qualcuno, ad eccezione di un fratello realmente angelico, Théodore, Théo, senza i cui sacrifici sarebbe morto di fame, egli era partito per una delle patrie della luce, la Provenza, (al posto del Giappone), per guardarvi fissamente il sole, come poteva osare solo un uomo fulvo, dalle pupille d’aquila, e la cui la fiamma interiore non rischiava mai di trovare troppo forti le bruciature delle sue scoperte.
Quanto alla morte, volgiamoci intanto a questa “follia” di cui nessuno smette di parlare. Una notte, vuole dipingere il Rodano sotto le stelle e appare agli Arlesiani con il cappello coronato di candele. Ma come avrebbe visto il suo lavoro senza?
Un’altra notte, la notte di Natale, segue Gauguin per la strada con un rasoio in mano, Gauguin che lui aveva supplicato di raggiungerlo per ammirazione e per affetto, al fine di cominciare insieme il falansterio di artisti che sognava da tempo, Gauguin il pretenzioso, l’egoista, il calcolatore, che ora non pensa che a ripartire! Ma è sufficiente che Gauguin si volti per farlo fuggire. Nella collera contro se stesso, si taglia un orecchio; ferma come può l’emorragia, s’infila un berretto sulla testa per fissare il fazzoletto che gli serve da medicazione, pulisce l’orecchio tagliato dal sangue che lo sporca, lo avvolge e lo porta a una prostituta che conosce bene, dicendo: “Ecco un mio ricordo”. Ma, precisa Meier-Graefe, la ragazza, mentre i due pittori stavano bevendo un po’ troppo all’inizio della serata, ridendo gli aveva chiesto come regalo di Natale una delle sue orecchie.
Violenza esplosiva da scorticato vivo e da non amato, esaltazione mistica, ingenuità infantile, e al contempo incubi allucinatori e prostrazioni alternati all’eccesso di giornate di lavoro entusiasta: è follia questa?
Entra nel manicomio di Saint-Remy di sua volontà. Descrive minuziosamente il suo caso, che il primario dichiara essere epilessia. Non smette di scrivere a Théo le più intelligenti delle lettere. E se un giorno ingoia dei colori per meglio riconoscersi in essi nel periodo in cui raggiunge la perfezione, è follia questa? Ogni esistenza senza misura sarebbe folle? E quali misure: le nostre?
Aveva abitato per quindici mesi nella piccola casa d’Arles che dipinse in giallo perché fosse “per tutti la casa della luce” e davanti alla quale la folla strepitava. Visse diciotto mesi in manicomio. Decise di risollevarsi a una luce più calma e alla compagnia di artisti. “Vivere con le stranezze dei malati di qui, rovina”, scrisse a Théo. Pissarro gli consigliò Auvers-sur-Oise, dove un medico, il dottor Gachet, psichiatra “pazzo per la pittura” e pittore lui stesso, accoglieva e nutriva, dopo Daumier, Courbet, Manet, degli sconosciuti che si chiamavano Cézanne, Renoir, Sisley, Guillaumin, Pissarro e ne acquistava le opere. (Il figlio ha offerto al Louvre la sua impressionante collezione.)
Nella via per Auvers, a fine maggio del 1890, van Gogh, passando per Parigi, vide Théo sposato e padre di famiglia. Pierre Marois ha saputo evidenziare che la famosa vigilia di Natale, quella dell’orecchio, in cui Gauguin gli aveva detto della sua partenza, Vincent aveva ricevuto da Théo una lettera che gli annunciava il suo fidanzamento: egli aveva forse immaginato un crollo totale. Poi il buon fratello si era mostrato sempre fedele e niente tra loro era parso cambiare. Lo spettacolo di una coppia unita che lo amava teneramente, la presenza di un bambino che si chiamava Vincent, furono per lui il colpo di grazia. Scoprì la realtà della sua solitudine. A questa svolta decisiva, mi ricordo la frase di un altro, che tuttavia non gli assomigliava in nulla, Alain-Fournier, quando sua sorella sposò il suo migliore amico: “Perdonami di essere qui, continuamente, vicino alla tua felicità, come un mendicante che bussa alla porta e mostra il suo male”. Alain-Fournier si torturava per un amore perduto. Van Gogh soffriva da una vita intera, vita che oramai poteva solo perdere.
Per qualche settimana ad Auvers, sistemato in una minuscola camera del Café Ravoux, di fronte al comune, egli riprese la sua produzione ad un ritmo incredibile. Si godette la campagna, il verde dei giardini e l’accoglienza meravigliosa del dottor Gachet, ciò che non gli impedì, un giorno, di tirar fuori dalla tasca un revolver preso in prestito da Ravoux per cacciare i corvi, perché Gachet non aveva fatto abbastanza in fretta ad incorniciare una tela di Guillaumin. Il 6 luglio, una visita a Théo lo convinse che non doveva più vivere a suo carico. Aveva scritto una volta al fratello: “Tu sarai stato povero a lungo per nutrirmi. Ma, io, io ti renderò il denaro o renderò l’anima”, Era arrivata l’ora di guardare fisso la morte.
Nella seconda quindicina di luglio, dipinse la sua ultima tela, terribile: Corvi in volo su un campo di grano, in cui due soli girano su una terra in combustione. E il 27, mentre un caldo crepuscolo finiva di schiacciare la domenica della piccola città, egli ritornò al campo dei corvi e si sparò al petto. Nella tasca aveva una lettera per Théo, scritta “con tutta la gravità che possono dare gli sforzi di una preoccupazione costante a fare il meglio che si può”, in cui testimoniava una volta di più la sua gratitudine e che s’interrompeva su questa domanda incomprensibile: “Ma tu che vuoi?”. O forse aveva sbagliato la punteggiatura e voleva lasciare il suo lamento definitivo, il suo ultimo punto esclamativo.
La pallottola non aveva toccato il cuore. Ritornò al café Ravoux, la giacca abbottonata con cura a causa del sangue che tingeva di rosso la camicia. Passò davanti agli ospiti senza una parola, premendosi il fianco con la mano. Madame Ravoux, preoccupata, fece salire suo marito. Van Gogh, disteso, era girato verso il muro. Il sangue aveva impregnato la giacca. “Ecco, disse, ho voluto uccidermi e ho fallito”.
Si chiamò il Dottor Gachet. Egli esaminò la ferita e concluse, con il medico di Auvers, che era impossibile estrarre la pallottola. Volendo rassicurare il ferito, non fece altro che sottolineare il nuovo fallimento. Vincent disse semplicemente: “Ah, bene…”, chiese la sua pipa, si rifiutò di dare l’indirizzo di Théo e, vegliato sia dal figlio di Gachet, sia da Ravoux, fumò tutta la notte in silenzio.
Quando al mattino i gendarmi giunsero per le indagini, si limitò a borbottare: “Questo non riguarda nessuno”. Théo, avvertito alla galleria in cui lavorava, accorse subito, sconvolto dal dolore. “Non piangere”, gli disse Vincent, “l’ho fatto per il bene di tutti”. Si parlarono a lungo, in olandese. Più tardi, il moribondo gli chiese della prognosi dei medici. Théo gli assicurò che si sarebbe salvato. Lui rispose: “È inutile, la tristezza durerà per sempre”.
Giunse una nuova notte, con un’agonia molto dolce. “Vorrei andarmene così”, disse. La morte fu più clemente della vita. Si spense senza soffrire più all’una e trenta del mattino, martedì 29 luglio 1890. Aveva trentasette anni.
Nella grande sala del café , i suoi amici appesero tutte le sue ultime tele. Il feretro fu posto su dei cavalletti, in mezzo a dei ceri e sotto dei fiori. Tra questi c’era un bouquet di girasoli. Davanti, si misero tavolozza e pennelli, sua unica felicità e sua futura gloria.
Nei sei mesi che seguirono, Théo, di quattro anni più giovane, fu internato a sua volta – e non volontariamente – per morire a Utrecht nel gennaio del 1891. Nel 1913, sua moglie lo fece trasportare ad Auvers, affinché i due fratelli potessero finalmente riposare vicini, sotto delle lapidi esattamente uguali.
Digressione, di Giovanna Zulian
Caro Aveline,
leggo e mi addentro nelle tue parole per conoscere le ultime parole dei grandi, tra i quali van Gogh.
Sono molto sorpresa per quella frase che il pittore avrebbe sbagliato a pronunciare: “Ma tu che vuoi?”.
Tu, infatti, secondo la tua speranza, pensi e ci dici che forse ha sbagliato la punteggiatura, che era l’ultimo suo tentativo di liberare un lamento.
Ma per una vita come quella di Vincent, per la sua ricerca costante di contatti e comunicazioni con chiunque, nel regno umano, animale, naturale e mistico, per il suo tentativo di vedere uno spiraglio in quel giallo (che è come un tunnel che t’incanala, e non come la bellezza estiva che crede la maggior parte della gente quando vede i suoi campi), per lo sforzo di farsi comprendere, senza parole, di entrare e far entrare, di non essere triste, la delusione e la solitudine sono qualcosa che l’affossa ogni volta di più, perfino nel meraviglioso dialogo con Théo, che, nonostante tutto, muta d’accento, perché Vincent in qualche modo ne è fuori, così com’è fuori dal falansterio degli artisti; non può viverci, non può condividere con Gauguin e gli altri. In fondo, anche loro, come il mondo tutto, non lo vogliono, lo temono, lo rifiutano, e lui lo sa benissimo. Non può stare dentro a un qualcosa di fisso. Guarda fissamente il sole e la morte da sempre, poiché non li può raggiungere e la sua tristezza non è compresa, o meglio è temuta e rifiutata.
Di questo soffre, di non avere nessun confronto, neanche con Dio, nonostante la sua educazione protestante; la sua tendenza mistica viene scemando poiché non vuole punti esclamativi a quella chiamata imperativa: “Vai a te stesso!”. Per andare a se stesso, cosa avrebbe dovuto fare di più? Come farsi accettare, amare, quando ogni volta era una profonda piaga? E lui, dopo averci provato in tutti i modi e per tutta la vita, risponde in forma di domanda: “Ma tu che vuoi?”. Lo chiede a Dio, alla natura e a se stesso.
Perciò, caro Claude, non dare speranze al tuo lettore, non fingere di crederci anche tu. Il suo baratro l’hai capito molto bene. Chi è in questa profonda consapevole tristezza, non vede altra via d’uscita.
Meglio morire con un punto di domanda che con un punto esclamativo.
Cari saluti,
G.
Un’altra possibile traduzione è quella di una vecchia edizione – che ho lasciato in Italia, per cui purtroppo non ho il testo in questo momento – la quale dice “Cosa vuoi tu, infine?”
A lungo ho studiato la storia di Vincent e l’ho analizzata soprattutto per quel che mi compete, ossia attraverso le lettere, la sua seconda produzione artistica, una testimonianza letteraria oltre che pittorica. nell’ultima lettera, intesa come il suo testamento, Vincent si chiede con tutto il rammarico e il senso di colpa provocato dai dieci anni vissuti sulle spalle del fratello, che cosa infine renderebbe felice Théo. Perché è questa una delle sue maggiori ossessioni: la felciità dell’unica persona che ha realmente amato. Addirittura, il fatto stesso che il fratello avesse speso la sua vita in funzione di quella di Vincent, è stata una delle cause della sua follia, se di follia si vuol parlare, premesso che le mie ricerche dimostrano di no.
L’uso di quella virgola dopo il tu è un elemento importante. Vincent era abile scrittore inconsapevole. Quella virgola ha messo tutto il peso della sua ultima lettera nella parola più importante: tu. Ovvero, suo fratello.
Complimenti per questo articolo. mi è piaciuto molto.