avvertimento a Pasolini – Vladimir D’Amora

Cominciando dal basso. Pasolini, oggi a te scrivono come se fossi né morte né un morto; quasi vivi si meritano di aggiornarti su quanto hai perduto, smarrito d’impossibile.
Non cominciare dal cespuglio, dal bianco raggelato. O grigio di pastore. Non si tengono nell’esposizione stessa, subito, senza mediazioni che fondino.
Il nome, il tuo: Pasolini. Una cintura; e s’indovina il vento, si piega ogni difesa levata contro gli elementi dell’uomo spezzato perché resti e spezzato. E se ci sono curve, tra noi, tra loro e te, Pasolini, sarebbe il ritrovarsi all’intelligenza delle cose oltre ogni senso e nell’alba rattrappita e ardente, dentro, di segni intemporali – ma hanno il casco per la vita.
Come una protezione. Non restano altrimenti. Perché per loro lo iato d’epoca, la cesura che l’epoca è, li ha dotati di quanto a te scrivono: sentono il compito…
Così però l’esigenza è fatta, finalmente costruita – sì, sentono una fine… Si sento dentro, finiti… -, l’effettuarsi del bisogno che resti tale – il bisogno è il nome tuo che compare -, non colmabile ma svuotato: una specie della passività, ma non per retroagire. Questo passato che sei, gli resta compiuto: desolato. Mentre un’esigenza espone caduta a perdita, e dal male scavato sarà sputata luce che appare sequela di lumi costruiti con il contorno delle notti, che passano s’accumulano così si calcola il pericolo e la funzione, ora e luogo e materiali di salvezza. Oggi gli è poca cosa respirare tra i simili: non si fanno bastare il restarci contro questi muri.
Pasolini – non è la solida idiozia del vivente che ha gli occhi a partecipazione.

Montato, fosse pezzo senza lacrime, senza la storia, e le domande ripetute. Esaltate per se stesse. Non solo per questo la bocca tua andrebbe protetta, colla cura decisione, dell’aderenza i ritrovati, è tutta la lotta che spaccava il viso, a Pasolini – e le mani nascoste allo scempio invisibile, nascoste tra i rumori, a certi silenzi negate i silenzi non sintomatici, che nessun segreto tengono. Immedicabilmente e spalmati sulla strada mentre le piante s’avvolgono. E i rifiuti come speranze disossate. Questa terra qui. Oggi.

Se ci si potesse avversare solo frontali, e ripiegare nell’interna reciproca divisione, contando sulla distrazione a me dell’altro che Egli ci lascia!

La narrazione d’eventi di tradimento – la prosa di Pasolini: una traduzione nostra. Non c’è scampa, così va per la testimonianza e per l’avvenire, non il futuro oggi, come a tornare sarebbero solo fantasmi: non si ripresentano i morti: non li si tormenta con domande e aggiornamenti: archivi colmi dei difetti e delle mancanze di Pasolini… Perché l’adesione alle storie è solo al dissestato e incerto, l’intervallo, il pendere coeso destinandosi contento. La memoria – Pasolini si presenta alla tribuna sotto gli occhi di esistenze – noi oggi: queste sono l’esistenze -, la tribuna cui rimane la loro domanda. L’intende – Pasolini?
La sicurezza nell’aria insieme respirata e nelle voci si libera pensare come sia la caccia della vita trafitta e sola, spiegata nei discorsi che escono dalla bocca che s’infiamma, e resti pudore. L’occhio almeno, sebbene sia sopra, come un composto d’alterate relazioni con il mondo, composizione critica anch’esso. Sarà.

Non dividere non da non. Se si uscisse alla negazione esposta (alla) sorgente di strazio e non strazio: se rivelare fosse l’abisso su cui non ci fosse speculazione di parte.

Mentre il borghese – sono borghesi, questi funzionari del ricordo -, è ancora inevitabile, e deve coprire il fuori, e che l’esterno sia, potenza di fissare, dialettica impazzita. Anzi, immobilizzata. Come una esigenza ridotta al bisogno certo, superando, percosso dalla mira, nel progetto. Senza idea però. Solo il mito scordato sui ripiani, solo lo scambio protratto a proprie mani. Il borghese, non sa respirare – mentre Pasolini…

Dimenticare. Lasciare anime e cose al torrente – perché non la speranza, ma la responsabilità è levatrice del senso angusto e rattrappito del futuro – l’imminenza del disastro. Inaggirabile se inapparente: se eclatante. Dimenticare, e l’oblio stesso screziato per spossamento nostro, nella dedizione stratta della scrittura nostra. L’oblio che segua memoria, colla colpa. L’oblio che la preceda, fantasticandola: facendola ripetizione, suggerendole immagine da immagine: dal buco, dall’effervescenza del tratto del semplice.

Sapere questi oblii – Pasolini tra Ricoeur e Platone: come l’oblio spezzato, l’oblio ancora impossibile e quello scialo nei segni e nei respiri delle vite intossecate – sapere questi oblii di Pasolini è consegnare la testimonianza e la pretesa sua alla contingenza – se si vuole solo scordare – lavorando il passato come fosse la reinvenzione storica. Ma il testimone è vivo, malgrado la promessa viva di suo, e le giustizie condannino alla soglia del ribrezzo solo, e agl’abiti non resti che coprire, quasi ordinassero anche. Sapere questi oblii. Nel mentre se ne afferri uno, già l’altro a risucchiare: è lo scialo più che ontologico. Non c’entra l’essere, se si scrive. Il vivo merita il morire, e non già il morto. Si testimonia solo di ciò che non può scordarsi, che deve questo inceppamento del possibile, si testimonia un’esigenza, nell’esigere un integrale giacere nella sua maniera dell’altro e di sé. Lo spazio dell’aria, i tempi della respirazione – come il vuoto delle storie che pure irracontate dicono l’assolutamente altro e ulteriore, è il silenzio ché una vita non mia sta vivendosi.
L’epoca dell’aderenza, epoca della scommessa. Senza sperare, senza restare come a residuo. E il senso del cammino è l’olfatto, e la trovata di luci rilevanti ancora come se si puntasse, attendendo, per curarsi dei segni. Di queste tracce: come un arco dell’ironia, della veridicità, l’ostinato provarsi.

Ma i simili sono cannibali di carne, e A Pasolini hanno estratto gote, la faccia tutta. E lo fecero: lo massacrarono. Lo massacrano. Come capro: la delicatezza che tocca a ciascuno. Lo avrebbero ammazzato in un cantuccio appartato e coperto slargo sabbioso, manco la natura e i suoi colori, solo mescolarsi antropotecnico che tiene un nome: monnezza. Rifiuti che fanno male. Come queste domande e queste corse di parole iperlette, lettere inviate: l’occasione per essere dopo – Pasolini: dopo Pasolini. A televisività compiuta perché disattivato ormai l’apparecchio… Avrebbe fatto la fine sua Pasolini, del suo tronco solo, mozzato, sputo di sputi sulla terra che risucchia eiacula contiene: sarebbero state forme di vite assurde, morti che ammazzano.

Resta la delicatezza, la mollitia di quella parte della faccia che ci tiene tutti fuori dalla parola. Talvolta è un pretesto pure, l’alibi. Lasciando un segno come la bestia e il dintorno.

Ma si conta anche di una delicatezza altra. La sua faccia incastonata in spessi abiti dell’inverno, un ovoide non morbido, che deve rintanarsi, dettare poche correzioni perché l’insalvabile è perpetuo, non c’è, e c’era, minorità da promuovere, tipicità vendibile. Solo la vocazione che trasformi sul posto, monadi semplici di semplici aperture, in questo ch’è il mondo. Ancora. Dove non c’è decisione, se si debba acconsentire nella notte percorsa dai bagliori: se non ci si debba accontentare di descriverlo, il no della luce accecante… Chi domanda così, non sarà compagno di alcuna lotta. E non sta scrivendo ora di lucciole:

Alla fine gli occhi, e lo sguardo, la luce propria. C’è sempre dell’altro, se s’illumina la parte di segreto con la quiete stessa, saltando indietro. E indietro. All’essere sbriciolato che trapassi lento, rovina per rovina. Come l’inquietante seduto al fuoco minimo. Senza boati: gioia di un incontro voluto senz’armi. Al tempo come viene.

E’ il rischio l’attesa di un dio minore che boati spenga, all’alba, quando il formicolio corre solo sotto i passi assenti e all’ombra delle cadenze, attutite dal dolore tanto dalla gioia, è l’inestricabile rovinio dell’uomo e di suo figlio andato: perché non brilla orfana la voce complessa, nell’indesiderabile?

Alla fine si può solo fare come il desiderare: Alì-Ninetto dei Persiani. Fare il possibile in ogni negazione pura d’essere. Considerarsi al cielo, ché sempre mancheranno applique di nuovo.

Lidia – l’infasìa – Pasolini, ascoltala: dice che Alì: dice che gli occhi azzurri.

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